No, niente. Ero fatto così. Cosa sarebbe potuto venire fuori da uno del genere? La cattiva strada mi si spalancava inevitabilmente davanti, così come un canale della Cloaca Maxima finiva nel successivo.
Uno strumento largamente sottovalutato nella prevenzione dei crimini sono le camminate della domenica. Invece di lasciarmi a casa, come quando andavo ancora alle elementari, mio padre aveva ricominciato a portarmi con sé.
Il giorno 20 andai in montagna, ora però vestito in modo civile. In auto papà osservò che avrei dovuto essere contento. Contento, e perché? Perché non saremmo andati da soli. Ci accompagnava un suo paziente, il direttore del club alpino di lingua tedesca. Anche mio padre era socio del club alpino, quello italiano ovviamente. Dovevamo incontrarci con una specie di Almöhi, il nonno di Heidi, che avrebbe portato con sé sua figlia. L’avevo sognata: ciabattavo su e giù per i Monti pallidi con una Heidi smorta e saccente, dalle guance incavate e dal petto completamente piatto.
Invece non era affatto smorta e non aveva le guance incavate: era bionda e somigliava a Grace Kelly. Anzi, era ancora più bella, molto di più. Ed era interessata a me più o meno quanto io mi appassionavo alla Cloaca Maxima. Il sentiero saliva, diventò persino ripido, e io avevo il batticuore. Arrivati in cima mio padre mi diede una pacca sulle spalle e farneticò qualcosa sul panorama e sulla vista limpida. Mangiammo i nostri panini e le nostre mele. O meglio: gli altri mangiarono i panini e le mele, perché io non avevo appetito.
Grace Kelly – chi l’avrebbe mai detto – era una specie di camoscio. Si arrampicava sui detriti e sulle pietre con una tale abilità da farmi venire le vertigini. A me sembrava che la notte prima i miei arti fossero cresciuti in maniera incontrollata. Così mentre i tre assi del club alpino scendevano rilassati e tenendo un buon ritmo io restavo indietro inciampando nelle mie zampe da capra di montagna dalla lunghezza spropositata, e quando arrivammo al parcheggio ero triste. Avevamo scambiato in tutto cinque frasi: io quattro, lei una.
I giorni successivi trascorsero in qualche modo. Mi mangiavo le unghie e ogni tre metri inciampavo dieci volte nei miei stessi piedi. Se fossi rimasto alla scuola elementare tedesca ormai avrei padroneggiato perfettamente la lingua.
Nel fine settimana un’altra escursione. E un’altra ancora in quello successivo. La questione era sempre se con o senza di lei. Io andavo anche se lei non c’era, per tenermi in allenamento. Imparai ad arrampicare oltre a qualche nozione di geografia, orientamento o biologia. Dopo qualche settimana riconoscevo la soldanella ancora prima che papà infilasse l’indice nel suo tenero calice violetto. Scoprii che i licheni non sono muschi che vivono in verticale ma una simbiosi tra un fungo e un’alga, che credevo vivesse solo in mare.
Furono giorni, settimane, mesi di equivoci chiariti e non chiariti. Lei aveva quattordici anni, io da poco sedici. Avevo bisogno di un motorino, più di qualsiasi altra cosa al mondo. Funziona così: le ragazzine di quattordici anni di sera hanno il permesso di andare solo dalle amiche, di cui in genere abbondano. Arrivate là qualcuno passa a prenderle per andare insieme a fare cose proibite. Preferibilmente con un’auto. O almeno con un motorino. Un landò, un aereo da turismo o un dirigibile andavano ugualmente bene. Anita era esperta, erano già venuti a prenderla due tizi in motorino.
L’anno scolastico volgeva al termine. In geografia, tedesco e biologia ero tra i più bravi e se non avessi raggiunto a malapena la sufficienza almeno in italiano e fisica sarei passato per un vero secchione. Il che non mi giovava di certo. A fine maggio mia madre mi chiese cosa desiderassi per il mio compleanno. Un motorino, che altro? Mia madre disse di no. La sua risposta mi rimbombò nelle orecchie. Perché no? Lei dipinse quadri raccapriccianti di traumi al cervello che certi ragazzi si erano procurati subendo incidenti gravi, di stati vegetativi e di paraplegici. Io non credetti a una sola parola.
I miei genitori: capitalisti, medici che guidavano un’Alfa Romeo, proprietari di una casa, e non mi concedevano neppure un motorino. La mamma bussò alla porta, disse che doveva parlarmi. Io restai nella mia stanza, almeno per il momento. Ci sono persone che sanno come si fa ad avere un motorino, e volevo essere anch’io uno di loro.
LA VITA
L’intera sua vita gli passa accanto. Passa accanto a Max e va lontano da lui, verso qualcun altro. Non starà nascendo un bambino in questo momento? L’anima di Max non volerà proprio verso questa nuova creatura? Non volerà dentro di lui? Non attecchirà in lui? E non ricomincerà tutto da capo in qualche altro luogo? Da zero, completamente? E dove sarà, in Indocina o in Africa, in Canada o in Australia? Speriamo in un posto in cui fa caldo, pensa Max, perché ora ha freddo. Ha un freddo così terribile che è convinto che non si riscalderà mai più. I proiettili piovono da tutte le direzioni. E la vita gli passa accanto. Non si ricorda della sua nascita, e quasi nulla dei primi anni. Era l’inizio degli anni Sessanta, al maso. Una casa grande con una stalla, e dietro i prati e vicino il bosco. Nella stalla c’era il bestiame, a sinistra i campi di mais.
Poi era avvenuto il grande incendio. Era notte, e tutta la casa era andata a fuoco. Era bruciato tutto tra fiamme altissime. Sua madre era corsa fuori dalla casa con i bambini e suo padre aveva creduto di poter ancora salvare gli animali. Ma sua madre era corsa da lui e gli aveva urlato: il Poldi è ancora dentro. Allora suo padre era uscito a rotta di collo dalla stalla, tanto che aveva quasi fatto cadere la mamma, era corso verso la casa ed era saltato su uno dei travetti del tetto, che si era appena schiantato in fiamme davanti alla porta. Poi era entrato, ed era tornato fuori con il piccolo. Dio sia lodato, aveva detto sua madre, e aveva pianto tutta la notte e poi ancora le notti, i giorni e le settimane successivi. Suo padre aveva parlato con quelli dell’assicurazione ma senza riuscire a ottenere niente. Era sottoassicurato, gli aveva spiegato il tizio, e suo padre aveva detto che le assicurazioni sono una massa di imbroglioni.
E poi si erano trasferiti in un piccolo appartamento. Questo Max se lo ricorda bene. Era buio e lui aveva molto freddo perché il suo letto era umido. Era sempre umido, sia d’estate che d’inverno, perché accendevano il riscaldamento con parsimonia. Suo padre diceva che faceva bene ai bambini, li induriva. E così era diventato anche lui. Duro. Non sorprende affatto che qualcuno diventi duro perché è stato sottoposto a un trattamento del genere. Lo diceva anche la maestra, che Max era troppo duro. Troppo duro, diceva, era ostinato e irriducibile. Non lo piegava nessuno. Così non andava bene. Avevano cercato lo stesso di piegarlo, e allora non era più andato a scuola. La maestra non sapeva più come aiutarlo, tanto era ostinato. E allora l’avevano spedito a Cesenatico. Dare in affido un ragazzino di neppure dieci anni, e mandarlo così lontano da casa. La scuola era così dura che Max riusciva a malapena a tenere il passo con i compiti. E il collegio non era meglio. Non mangiavi la pastasciutta? In punizione. Non ti svegliavi al mattino? In punizione. Giocando a pallone finivi coinvolto in una rissa? Una settimana in punizione. Così aveva tagliato la corda, insieme a quel ragazzo di Bolzano: erano scappati via dalla città con l’intenzione di tornare a casa in corriera. Ma erano stati scoperti da suor Chiara alla fermata dell’autobus e lei li aveva riportati indietro. Max aveva pianto ma non era venuto nessuno a consolarlo, così lontano da casa. Ottimo, aveva detto suo padre, così il ragazzo diventa indipendente. E lui lo è diventato. Completamente indipendente. E molto duro. Perché anche restare solo lontano da casa è un modo per indurirsi.
Al suo ritorno era diventato un altro. Oddio, non proprio un altro, ma un fallito. Aveva compreso che alle persone non si può dire tutto. Che ci si deve tenere dentro molte cose e ce la si deve sbrigare da soli. Che si può fare affidamento su poche persone, anzi su pochissime. Forse ora dovrebbe ridere quando ci pensa, perché si è fidato di nuovo di qualcuno di cui non poteva fidarsi. Ma non ride. Il sangue scorre, la vita se ne va, esce da Max e sprofonda nel terreno. E là si disperderà.
L’istituto tecnico commerciale. Chi aveva avuto l’idea di ficcare Max proprio in una scuola commerciale? Forse la maestra della scuola elementare? Aveva messo lei la pulce nell’orecchio a sua madre che Max un giorno sarebbe potuto diventare un impiegato? Un contabile con le mezze maniche che si porta il caffè da casa nel thermos insieme al panino con lo speck? Al terzo anno aveva lasciato la scuola.
E poi il primo crimine. Allora conosceva già Franco. Si erano ficcati dei