Max va avanti. Oggi c’è tutta Italia per strada, come se dovessero fare provviste per l’inverno o per una guerra mondiale. Vorrebbe suonare il clacson, spazzare via tutti dalla strada. Ma si costringe a stare calmo, niente liti. La tavoletta l’ha predetto, ne deriverebbero solo seccature.
“Vi uccideranno”, ha detto Notburga. Max non ha risposto, non ha detto niente, neppure ai ragazzi. Loro non gli credono. Sono testardi, sono dei bulletti pieni di foga e alla fine quel che vogliono è contare i soldi. “Non li conteremo”, dice Max, “li peseremo.”
Oltreconfine il sole del tramonto posa i suoi raggi benevoli sull’autostrada austriaca deserta fiancheggiata da verdi boschi di conifere, abeti rossi e bianchi. A sinistra compare un lago, Max guarda fuori. Sarebbe bello scendere, togliersi i vestiti, tuffarsi, fare qualche energica bracciata, proseguire il viaggio rinfrescati. Ma non c’è tempo per il refrigerio. Tasta tra i piedi, apre la borsa sportiva, tira fuori dell’acqua minerale, apre la bottiglia con i denti, si versa un po’ d’acqua sulla testa e beve il resto. Bere molto per tenere la mente lucida.
Poi getta la bottiglia vuota dietro, la sente cadere sul sedile e rotolare giù, vede nello specchietto che il Pajero è due auto dietro di lui.
Vanno ancora avanti, finalmente compare un cartello: area di sosta di Nößlach a 2000 metri. Il Pajero ha recuperato terreno, c’è Franco alla guida. Max indica l’uscita. Si fermano, bevono, si sgranchiscono le gambe, pisciano dietro i cessi perché dentro c’è troppa puzza. Max vuole impartire le ultime istruzioni, ma i ragazzi gli danno un’occhiataccia e lui ammutolisce.
Avanti verso nord. Di fianco all’autostrada scorre un torrentello. Max ha studiato bene la mappa, si tratta del Grüblbach. Ora sta pensando: a come andrà, se lasciare aperta la palestra, se è meglio comprarsi una Porsche o una BMW 850. Vedremo. Dopo la rapina tenere la palla a terra fino a quando i custodi della legge andranno a custodire da qualche altra parte e a fare in modo che le brave persone non siano disturbate. Max guarda l’orologio, sono le 19. Ancora una mezz’ora. Costringeranno il furgone portavalori a fermarsi, trasborderanno i sacchi pieni di denaro, saliranno sulle macchine e taglieranno la corda. Dietro il Brennero le abbandoneranno, saliranno sui piccoli bolidi che hanno parcheggiato là e torneranno indietro. Bisognerà ascoltare la radio, guardare la televisione e controllare i messaggi sulle radiotrasmittenti. Cosa sanno i carabinieri? Ne sanno troppo? Allora piano B: proseguire verso sud, nascondersi a Vicenza, Padova o Venezia e aspettare fino a quando le acque non si saranno calmate.
Ma non ci sarà un piano B.
Max ha quasi superato l’uscita sud dell’autostrada e fa onore alla corsia di decelerazione: da centosessanta a ottanta all’ora in tre secondi. Il Pajero è incollato dietro di lui. Escono, proprio lì davanti c’è la stradina sterrata. Si dirigono veloci ai posti convenuti. Il Pajero è fermo più avanti verso sud. Quando arriverà il furgone, il Pajero lo bloccherà da davanti e la Rover da dietro, bisognerà calzare le maschere e correre fuori. Se i conducenti non dovessero arrendersi subito spareranno dei colpi di avvertimento alle ruote e poi gli punteranno contro le pistole. In ogni caso bisognerà sparare contro le ruote fino a distruggerle e sequestrare tutte le ricetrasmittenti, portare via qualsiasi apparecchio con cui i due tizi possano chiamare aiuto. Max afferra il walkie-talkie: “Sono le 19.35. Il furgone arriva da destra, a ore tre. L’informatore dice che sarà qui alle 19.50. Passo”. “Capito. Passo”, risponde Franco.
Subito dopo l’assalto il sole tramonterà. Proseguono a luci spente. Non sull’autostrada, perché li cercheranno proprio lì. Scivoleranno sulla statale del Brennero che corre parallela. Invisibili sulla strada deserta, come dei fantasmi.
Ore 19.48. Max contatta l’informatore via radio. Dov’è il furgone? Arriva, abbiate pazienza, sarà qui presto. Improvvisamente si sente un frastuono, un’auto si dirige a tutta velocità verso Max, la luce dei fari è accecante. Non è il furgone portavalori. Sulla sua testa volteggia minaccioso un elicottero. L’auto inchioda, si sentono degli spari. Saltano giù degli uomini in tuta mimetica, sono armati. Sono militari, no, poliziotti. L’elicottero volteggia sopra il tetto dell’auto e spara. Max non lascia cadere il mitra. La Range Rover è circondata da BMW blindate, saranno tre o quattro. I proiettili la crivellano, sfondano la portiera del guidatore, gli passano di fianco fischiando ed escono dall’altra parte. I poliziotti urlano: “Giù le armi, arrendetevi, immediatamente!”. Pallottole nel ginocchio, nel bacino, nella coscia. Max vede il sangue che continua a scorrere, ha caldo, sempre più caldo. La gamba… è persa. I colpi continuano a esplodere vicino all’orecchio, i finestrini sono scoppiati. La vista gli si annebbia, ha le vertigini. Non deve svenire, non adesso. Alzarsi, fuori, a terra! Max apre la portiera del guidatore e si lascia scivolare per terra, non riesce a camminare né a strisciare, non riesce neppure a muoversi. I proiettili cadono a pochi centimetri, a pochi millimetri, colpito. Un colpo alla mano. Un colpo vicino all’orecchio. Un frastuono incredibile. Il sangue di Max si riversa per terra, la inzuppa.
Prima di morire, si dice, ci passa davanti tutta la nostra vita.
IL VALZER DELLA BIONDINA
Andare alla scuola elementare di lingua italiana fu solo un breve sollievo prima che i miei genitori mi comunicassero una nuova, funesta notizia. Le persone sfortunate imparano presto a leggere i volti di coloro che popolano il loro mondo. Cattive notizie come “Andiamo a trovare tuo cugino Stefano, fa’ il bravo con lui!” sono date con un’aria seria. Le sopracciglia si aggrottavano, le guance tremavano, la pelle diventava rossa fino alla radice dei capelli: voleva dire arresti domiciliari o divieto di vedere la televisione. In questo caso, però, mentre mi toglieva la terra da sotto i piedi mia madre aveva un’aria raggiante. Raggiante come se stesse per dirmi che potevo andare a vedere la finale di Coppa dei campioni o che Pelé mi aveva invitato in Brasile. Non presagivo niente. E non volevo crederci, mi sembrava uno scherzo, una storiella. Invece non era così: la mamma era incinta, non ero più l’Unico.
In quell’istante finì la mia infanzia. Da allora mia madre non si sedette più con me a fare i compiti, non mi mise più a letto, non mi lesse più niente ad alta voce. E da allora sentii quella frase, la frase che ho giurato di non dire mai ai miei figli: “Quando avevo la tua età…”. Sì, papà, quando avevi la mia età hai sgobbato sui libri perché questo ti dava gioia. Perché eri contento quando vivevi tra i libri e non tra le persone. Ma io, papà, volevo stare fuori a giocare a calcio, leggere i fumetti e guardare i cartoni animati in tv. Io, da solo.
Dopo un anno e mezzo arrivò un altro marmocchio. Violetta. Mio fratello non sperimentò mai l’orrore di trovarsi accanto un fratello senza volerlo. Lui era felice, era uguale a papà. Paolo sapeva leggere già prima di andare a scuola. Era contento di andarci, alla fin fine in lui inclinazione e dovere si sposavano alla perfezione. Ma Violetta era la più felice perché poteva fare quello che voleva. Quando studiava i miei genitori erano orgogliosi, quando non studiava la trovavano dolce, estrosa e affascinante.
Quello che non viveva affatto una vita idilliaca ero io. Trascorsero anni densi e oscuri come la pece, su cui da lontano sventolava la bandiera a scacchi del traguardo con un numero: sedici. Sedici anni e un motorino. Tutti erano sollevati quando lo ero io. Il goffo sbattere delle mie membra troppo lunghe in un ambiente che mi sembrava ostile, la svogliatezza, la scontrosità, il sentirmi diverso, la rabbia che provavo avevano un nome: pubertà. Che aveva appunto i suoi difetti: membra troppo lunghe, svogliatezza, rabbia. Invidiavo i ragazzi che studiavano in collegio, perché su di loro la melassa della famiglia si riversava solo nel fine settimana.
Andammo in auto fino a Lasa, dove c’è un acquedotto. Pardon, un impressionante acquedotto. Papà favoleggiò di antiche tecniche idrauliche, ci spiegò che gli Etruschi, che se ne intendevano parecchio, a Roma avevano costruito la Cloaca Maxima. Paolo lo ascoltava attentamente, mentre accanto a loro due io ciondolavo. A mio padre non piaceva la mia faccia, e neppure a me piaceva. Avrei voluto assomigliare a Charles Bronson, e invece ero quello che in Alto Adige si definisce un Milchgesicht, uno sbarbatello.