ICH SAZ ÛF EIME STEINE
Ich saz ûf eime steine,
und dahte bein mit beine;
dar ûf satzt ich den ellenbogen;
ich hete in mîne hant gesmogen
daz kinne und ein mîn wange.
dô dâhte ich mir vil ange,
wie man zer welte solte leben.
deheinen rât kond ich gegeben,
wie man driu dinc erwurbe,
der keinez niht verdurbe.
diu zwei sint êre und varnde guot,
daz dicke eim ander schaden tuot:
daz dritte ist gotes hulde,
der zweier übergulde.
diu wolte ich gerne in einen schrîn:
jâ leider desn mac niht gesîn,
daz guot und weltlich êre
und gotes hulde mêre
zesamene in ein herze komen.
stîg unde wege sint in benomen:
untriuwe ist in der sâze,
gewalt vert ûf der strâze;
fride unde reht sint sêre wunt.
diu driu enhabent geleites niht, diu zwei enwerden ê gesunt.
Walther von der Vogelweide
SEDEVO SU DI UN MASSO
“Sedevo su di un masso / con le gambe accavallate. / Su una gamba appoggiai un gomito. / Sulla mano avevo posato / il mento e una guancia. / Così riflettei molto intensamente / su come si debba vivere a questo mondo. / Non seppi trovare alcun consiglio / su come ottenere tre cose, / senza che una vada persa. / Due di queste sono l’onore e i beni terreni, / che spesso si danneggiano a vicenda: / la terza è la grazia di Dio, / che è molto più importante delle altre due. / Io vorrei che fossero tutte nello stesso scrigno: / ma purtroppo non è possibile / che i beni e l’onore nel mondo / e la grazia di Dio in aggiunta / si riuniscano nello stesso cuore. / La loro strada è sbarrata: / la slealtà è in agguato, / la violenza è per le vie, / la pace e il diritto sono feriti gravemente. / Se questi due non guariscono, / quelle tre non potranno essere difese.”*
Walther von der Vogelweide
*Traduzione da: Andrea Palermo, voce “Walther von der Vogelweide”, Enciclopedia Treccani online, www.treccani.it/enciclopedia/walther-von-der-vogelweide_(Federiciana)/
I DANNI DELLA TEMPESTA
Aria, aria fresca. L’aria fresca è ovunque, basta respirarla. Possono farlo tutti, perché l’aria non costa nulla. Nemmeno ai più poveri tra i poveri – gli affamati d’Africa e i cenciosi degli slums – manca l’aria. L’aria non ha sostanza: non è bella e non è brutta, non è dura né soffice, non è rumorosa né silenziosa, non emette suoni stridenti né gradevoli. Cosa ci troverà la gente nell’aria fresca? Già da bambino, quando sua madre lo spediva fuori di casa per stare tranquilla con i suoi uomini, Fausto non amava per niente l’aria fresca. Restava lì per ore nel cortile di cemento, fermo accanto allo stenditoio a fissare le finestre di casa. Solo molto tempo dopo arrivò a capire che neppure sua madre era contenta di stare con gli uomini, che quello era l’unico modo per evitare che entrambi fossero costretti a respirare aria fresca per sempre, giorno e notte. A scuola non andava meglio. Con il buono o il cattivo tempo il maestro mandava i bambini in cortile a giocare a pallone o a sgranchirsi le gambe. Ma la maggior parte dei suoi compagni non correva. Stavano fermi in piedi intorno a lui, anzi gli si avvicinavano, lo spintonavano, lo prendevano a calci, lo picchiavano e lo chiamavano figlio di puttana. Già allora Fausto odiava l’aria fresca. Tutto questo l’ha appena raccontato a Max. Gli ha raccontato persino la storia dei panini. Erano deliziosi, pieni di maionese. Fausto li usava per insudiciare i bulli più grandi di lui in cortile. Fausto aveva spesso fame. Anche Max da bambino sentiva i morsi della fame. Ma non ne parla. Perché non interessa a nessuno.
Max insiste: andiamo a fare due passi. Fausto protesta, poi chiama la cameriera. Lei arriva strascicando i piedi, si fa pagare i due cappuccini e il calice di spumante che la donna ha bevuto. Max osserva Fausto di profilo: è sobrio. Attraversano veloci piazza Walther. La stagione turistica è alle porte, c’è un gruppo di anziani probabilmente sceso da un pullman. Max coglie qualche frammento di conversazione, hanno l’accento viennese, almeno così gli sembra. Forse anche carinziano, o stiriano. Comunque non tirolese. La guida li sta indottrinando su Walther von der Vogelweide. Cose che Max ha colto al volo centinaia di volte passando di lì. Mettendo insieme tutti i pezzi che ha ascoltato potrebbe snocciolare l’intera biografia del poeta, con la stessa noiosa cantilena di questa signora paffuta con l’ombrellino verde.
Passeggiano lungo i vicoli fino all’auto. È un’Alfa Romeo rosso scura, nuova di zecca. È vistosa, poco adatta per gli sterrati, però è elegante. Ormai sono quasi usciti dalla città, Max guida in silenzio mentre Fausto guarda fuori dal finestrino. Si stanno dirigendo a sud tra le colline, nel verde, dove non c’è nessuno. Noo! Vuole andare davvero a camminare? Fausto lo guarda, gli angoli della bocca piegati in giù, in un’espressione di scontento.
Lasciano la Statale 38 e proseguono per San Michele. Improvvisamente dalla boscaglia, in cima alla collina dove ci sono le fortificazioni, spunta la chiesetta del Calvario, gialla e bianca con le due torrette incappucciate di rosso. È un segno divino, sia lodato Gesù Cristo.
Max arresta l’auto. Camminano lungo un sentiero, a destra e a sinistra ci sono solo vigneti. Alla testa dei lunghi filari le rose profumate tendono al cielo i petali rosa, gialli, rossi e bianchi. Non ci sono ragnatele biancastre a ricoprire le foglie e i boccioli, a succhiarne via la forza vitale guastando il vino ai contadini. Dalle viti pendono i primi grappoli acerbi. Fausto borbotta