Oh come avrei voluto interrogarla, conoscere il motivo del suo turbamento, e consolarla. Impossibile!...
Io leggeva bene ne' suoi sguardi un'espressione d'affanno, ma come decifrarne la causa? Una sera pareva che non potesse staccarsi dalla finestra; il suo sguardo melanconico non prendeva più le precauzioni del solito giro per giungere a me, ma mi colpiva direttamente, e durava a lungo, languido e doloroso. Finalmente l'oscurità succedendo al crepuscolo, gli oggetti apparivano indistinti, io non distingueva più i suoi lineamenti, e solo discerneva la sua graziosa persona, flessibile come il gambo d'un fiore, appoggiata alla finestra; e mi parve di scorgere che mettesse una mano sugli occhi, e un'altra mano sul cuore.... e poco dopo scomparve.
All'indomani tutte le imposte del palazzo erano chiuse, essa era partita. Partita da Milano!... e le carrozze continuavano a circolare nelle vie, la gente andava e veniva come al solito, tutti i negozi erano aperti, il sole brillava sulle aguglie del duomo.... eppure Milano mi pareva morta, le strade squallide, il cielo buio, la folla un assembramento di fantasmi. Mi sembrava impossibile che la vita potesse ancora durare in quel vuoto, mi pareva che le anime dei miei concittadini fossero uscite dalla città, e che i corpi continuassero materialmente il loro giro automatico in un mondo spento. Entro di me era uno sbalordimento, una malattia dell'anima, dalla quale s'era staccata una parte, e la migliore. Vagai tutto il giorno per le vie come un insensato, urtando i passanti, guardando macchinalmente le carrozze, ove mi pareva che sedessero donne di legno cogli occhi di vetro.
Gli organetti mi mettevano in fuga, la musica mi batteva nella testa come un martello, gli uomini che ridevano mi parevano matti, e mi facevano paura.
Mi trascinai a casa per l'ora del pranzo, pensando che un ritardo avrebbe potuto far ricadere malato mio zio, e mi misi a tavola senza poter inghiottire un boccone. Alle sue interrogazioni risposi confusamente accusando un dolore di capo.
Dopo pranzo la Veronica venne a raccontarci come la cosa più naturale del mondo, che i nostri vicini erano partiti per la campagna. I conti di Brisnago lasciavano Milano ogni primavera, e non ritornavano che alla fine d'autunno. Io non ne sapeva nulla. Avevo veduto la Savina per la prima volta nel passato novembre, e avanti quell'epoca ignoravo perfino chi abitasse il palazzo, e non mi accorgevo se fosse chiuso od aperto. Dopo di averla veduta, non vidi altro che lei sola in tutto Milano, e dentro il mio cuore. Non mi ero mai interessato di conoscere la sua famiglia, il padre, la madre, i parenti. Vedevo bene una signora attempata al suo fianco, nel salotto o in carrozza, ma la vedevo come un'ombra, senza arrestarvi sopra nè l'occhio, nè il pensiero.
Le notizie di Veronica mi sbalordivano, come qualche cosa di straordinario, tanto mi pareva impossibile che Savina fosse una donna come le altre.
Alla sera nel mio letto, pensando ai lunghi mesi che avrei dovuto passare nella solitudine, inondai il mio guanciale di lagrime, e durai alcuni giorni trasognato e ingrugnito.
La partenza di mio zio fu il primo diversivo che venne a mettermi nuovamente in comunicazione colle cose volgari della vita. Malgrado l'opposizione insistente di Veronica, il dottore aveva perseverato nella sua opinione, dimostrando la necessità di mandare mio zio ai bagni di Bormio. Essendo molti anni che non visitava la sua casetta in Valtellina, appigionata a un vecchio maestro di scuola, mio zio contava arrestarsi due giorni dal parroco del villaggio di X**, e poi di passare al paese dei bagni.
I preparativi della partenza furono lunghi e laboriosi. Da un mese non si parlava d'altro, mio zio prendeva continue informazioni sulle ore della partenza e dell'arrivo delle vetture, e sulle fermate, i prezzi dei posti, le coincidenze dei battelli sul lago, sul viaggio da Colico a Bormio, sui locali, e il regime dei bagni e le analisi chimiche delle acque. Poi enumerava i beneficii, gl'inconvenienti, i pericoli, i disagi della cura ordinata, le speranze che dovevano sostenerlo all'impresa. Veronica apparecchiava i sacchi da notte con tutte le precauzioni immaginabili, mettendo in ordine i tabarri di varie gradazioni, e tutti gli accessorii occorrenti, le pastiglie per la tosse e la magnesia calcinata, il tabacco da naso e i fiammiferi. Si prendevano note per non dimenticare gli oggetti indispensabili, per ricordarsi le minime precauzioni, per seguire a puntino le raccomandazioni del medico.
La diligenza per Como partiva alle dieci, e al giorno fissato mio zio mi fece svegliare col lume, prima del levare del sole, per tema di trovarsi in ritardo avendo mille commissioni da darmi. Abbiamo lasciata la casa un'ora prima della partenza; preceduti da un facchino che portava il bagaglio e l'ombrello, e seguiti fino alla porta dalla Veronica, che piangeva raccomandando a Monsignore di guardarsi dalle correnti d'aria, dai cibi pesanti, dal freddo e dal caldo, chiedendogli se avesse in saccoccia la scatola, gli occhiali, il portafogli, i guanti di lana, pregandolo di scriverci subito appena giunto.
Egli voleva fare il disinvolto, ma si vedeva dalla sua fisonomia che sentiva tutta la gravità dell'impresa. Voleva rassicurarci, ed era più agitato di noi e camminava rammentandoci le sue commissioni, la lettera al Cancelliere arcivescovile, il libro a Monsignor Decano, un piccolo pagamento, una mancia, i saluti all'abate X** e a sua sorella.
Finalmente quando piacque a Dio si giunse all'ufficio della diligenza. Colà mille domande calorose agli impiegati che rispondevano freddamente, senza nemmeno alzare la testa dai loro registri. Raccomandazioni iterate ai facchini sul collocamento del bagaglio, che gettavano sulla carrozza col capo ingiù e con tale sguaiataggine da far raccapricciare la Veronica se li avesse veduti. Quando i viaggiatori salirono in carrozza, mio zio mi diede due grossi baci sulle gote, io gli raccomandai di aver cura della sua salute e rimasi fermo sulla via, rispondendo a' suoi saluti, ed ai suoi cenni fino a che la vettura scomparve. Allora mi avvidi che volevo bene a quel povero vecchio, sentendo come un groppo che mi strozzava la gola. Talvolta io lo trovava noioso, ed anche ridicolo; ma tali passeggiere impressioni non mi rendevano ingrato verso colui che mi aveva raccolto come un figliuolo, e mi colmava di benefizi. La vita comune ci avvezza all'affetto, ma le separazioni lo rivelano. Ritornando sui miei passi io faceva caldi voti per la sua salute, e pregava il cielo di rimeritarlo del bene che mi aveva prodigato.
La casa mi parve deserta senza di lui, e la Veronica ed io non eravamo i soli a provare quel vuoto prodotto dall'assenza; anche il suo gatto prediletto lo andava cercando per le stanze, miagolando con affannosa insistenza. Povera bestia! io che prima non lo guardava nemmeno, sentivo il bisogno di carezzarlo, e di dargli qualche bocconcino in ricompensa dell'affezione che dimostrava pel suo buon padrone.
Oh! la vita è tutta un intreccio d'affezioni e di distacchi, di legami e di lacerazioni, di conquiste e di sconfitte, e il cuore invecchia, come il veterano che ha perduto le gambe sui campi di battaglia.
Ho passato l'estate studiando ed apparecchiandomi agli ultimi esami, che ebbi la fortuna di compiere felicemente procurandomi la soddisfazione di annunziare con una lettera a mio zio, che avevo ottenuta la patente di maestro, con attestati di lode.
Finite le occupazioni scolastiche, ripresi con grande alacrità la mia tragedia, per dare qualche sfogo alla passione che mi esaltava.
L'espressione d'un amore represso mi faceva sgorgare dei versi ispirati, e quantunque il palazzo Brisnago fosse sempre chiuso, la divina mia musa mi appariva come in celeste visione; la lontananza aveva idealizzato il mio amore, io la vedeva coll'immaginazione, circondata da un'aureola di luce, mandarmi un pensiero, che attraversando rapidamente lo spazio giungeva nella mia cameretta come un raggio vivificante.
Un giorno divagavo la mente in quel modo fantastico che sorrideva alla mia solitudine come un preludio di gloria e d'amore, quando la Veronica, spalancata violentemente la porta, mi annunziò il ritorno dello zio, correndo precipitosamente giù dalla scala per incontrarlo. Scosso dall'ebbrezza de' miei pensieri, come un uomo destato improvvisamente dal sonno, gli corsi incontro barcollando. Egli si gettò nelle mie braccia e mi strinse affettuosamente sul cuore. Mostrava un aspetto floridissimo. Il dottore aveva avuto ragione, il viaggio e i bagni gli tornarono utilissimi. Mi disse che da principio ebbe a soffrire qualche incomodo per le mutate abitudini, ma poi l'aria dei monti, l'esercizio, il buon regime e la lieta compagnia lo ristabilirono perfettamente in salute.
Finiti i reciproci abbracciamenti, e soddisfatta pienamente la curiosità