Antonio Caccianiga
Il bacio della contessa Savina
Pubblicato da Good Press, 2020
EAN 4064066071608
Indice
I.
Il romanzo della mia vita incomincia quando io avea diciott'anni, e passavo gran parte del giorno al balcone, in casa di mio zio canonico. Allora la contessa Savina di Brisnago aveva sedici anni, e ricamava, seduta presso al balcone dirimpetto del mio. Era una bella giovanetta, aveva un profilo dolcissimo, un nasino provocante, una bocca soave, capelli neri rilevati sulla fronte, occhi bruni, divini. Mi pareva un angelo sceso dal cielo, tanto i suoi movimenti erano leggiadri e maestosi. Io non mi saziava mai di contemplarla, ella di tratto in tratto alzava la testa dal lavoro, si passava una mano sulla fronte, si lisciava i capelli, poi con aria distratta guardava il cielo, le case di fronte e le tendine della finestra. Il suo sguardo percorrendo questa linea attraversava naturalmente il mio balcone, e quantunque passasse come un lampo, pure mi gettava lo scompiglio nell'animo. Non saprei spiegare l'arcana attrattiva, che come un filo invisibile mi legava a quella fanciulla, tenendomi immobile per delle ore.
Veronica, entrando nella mia stanza come una valanga, rompeva sovente quel fascino annunziandomi il pranzo. Allora io scendeva e andava a collocarmi a mensa dirimpetto dello zio, che mangiava con grande appetito, mentre io inghiottiva ogni cibo con ripugnanza. Egli mi interrogava sui miei studi, mi parlava di pedagogia, di metodica, d'aritmetica; io rispondeva sbadatamente, pensando a quella finestra. Finito il pranzo, mio zio si ritirava a fare il suo chilo, ed io ritornava alle mie estatiche contemplazioni. In casa Brisnago pranzavano molto più tardi di noi, e talvolta prima del pranzo andavano a fare un giro pel corso. Allora ella si alzava da sedere, dava un'occhiata fuori della finestra, guardava alla sfuggita la nostra casa, ed io sentiva il dardo fatale entrarmi nel cuore e lacerarlo. Essa scompariva, e qualche tempo dopo lo scalpito dei cavalli e il rumore della carrozza mi avvertivano della partenza.
Allora io prendeva il mio cappello, e me ne andava girovagando per le vie di Milano sulle traccie della mia stella. La trovavo quasi sempre sui bastioni, i nostri sguardi si scontravano rapidamente ed io rimaneva come sbalordito a contemplare quel cocchio che correva portando con sè qualche cosa di me stesso; tanto è vero che imbattendomi per via in taluno de' miei amici che si arrestava a parlarmi, io faceva la figura di un imbecille, e mi restava appena appena tanta intelligenza da accorgermene.
Mio zio canonico non s'avvedeva di nulla; rinchiuso nella sua sfera d'azione, egli compieva le sue evoluzioni quotidiane con esattezza inappuntabile. La messa e la colazione, le sacre funzioni ed il pranzo, il breviario e il passeggio, il chilo ed il sonno si succedevano per lui con tale regolarità, che i nostri vicini se ne servivano per regolare gli orologi, e dicevano: — il canonico Carletti va a dir messa: sono le otto; il canonico va a cantar vespro: sono le due. La nostra vita rassomigliava perfettamente ad un cronometro; Veronica era la seconda ruota, come io era lo scapamento che riceve l'impulso, e tutto si muoveva per addentellato del motore principale, ossia del padrone di casa.
Mio zio metteva la felicità nella precisione dei movimenti, e ciò appunto formava la mia desolazione, sentendo il bisogno di muovermi secondo i variabili impulsi della mia natura. Ma bisognava rassegnarsi a trascinare la catena che mi veniva imposta dal mio benefattore, perchè io non era che un povero orfano. Privo delle carezze dei genitori, in tenera età, mio zio ricoverandomi in casa sua mi salvava dalla miseria; io non aveva ereditato che una piccola medaglia di bronzo che mia madre teneva al collo per divozione, e che dopo la sua morte venne appesa al mio letto, come talismano dell'infanzia. La mia sommessione era dunque un dovere e in pari tempo una necessità, che per mezzo dell'educazione mi apparecchiava l'indipendenza per l'avvenire.
Ma io mi risarciva della schiavitù personale colla libertà dello spirito. Sdraiato sul canapè della mia cameretta accendeva uno sigaro e mi metteva in viaggio. La mia fantasia usciva dalla finestra sulle spire del fumo, e volava per l'ampio orizzonte con la rapidità del pensiero. Se potessi rammentarmi quelle peregrinazioni meravigliose, scriverei un bel volume. Mio zio mi destinava all'istruzione, io accettava il suo piano come un mezzo d'emanciparmi, ma mi pareva di sentire in me stesso una voce che mi chiamasse a più alti destini. Quel sentimento d'amore che mi agitava l'anima aveva acceso nella mia mente una scintilla che mi svelava un nuovo mondo; i miei pensieri si elevavano ad un'altezza sublime che, rivelata con l'arte, avrebbe destato la meraviglia universale. L'amore mi additava il cammino della gloria e della fortuna. Avevo incominciato