L’oratore accenna quindi al patto di Londra, nel quale Fiume venne sacrificata. Dice che ciò avvenne per pressione della Russia, il famoso rullo compressore che finì poi per schiacciare sé stesso. Oggi però la situazione è cambiata: né la Russia né l’Austria-Ungheria esistono più e perciò la sorte di Fiume deve essere risolta in senso italiano.
Parla quindi della guerra, dell’ora tragica di Caporetto, della perfetta solidarietà con gli Alleati purché questi la ricambino sempre. Poi dice:
Fiumani!
Voi potete contare su di me sempre. Io agiterò per voi fino a quando un comunicato della Stefani annuncerà che la questione di Fiume è risolta. Fiume è e sarà italiana e sino allora mantenete viva la fiamma della vostra mirabile fede, e siate certi che all’altra sponda vi sono migliaia e migliaia di fratelli disposti a tutto osare per voi.
Tratta infine della questione dell’Adriatico che deve essere libero per tutte le bandiere, ma militarmente italiano, e ciò per assicurare il nostro posto nel Mediterraneo, il mare di Roma, il mare dell’espansione di tutta Italia. Abbiamo diritto all’espansione poiché l’italiano è un popolo prolifico e laborioso. Per questo l’oratore dichiara di avere una fede incrollabile nell’avvenire del popolo italiano che tornerà fatalmente alla grandezza e alla potenza d’un tempo.
Il Mediterraneo tornerà nostro, come Roma tornerà ad essere il faro della civiltà del mondo. (La fine del discorso suscita altissimo entusiasmo. Il pubblico si dirige alle uscite e attende Mussolini che viene accompagnato da una folla imponente lungo il corso Vittorio Emanuele II e il viale XVII novembre sino all’albergo «Wilson». Durante il percorso la folla acclama a Mussolini e canta l’inno a Oberdan).
Riassunto del discorso pronunciato a Fiume, al teatro Verdi, la sera del 20 dicembre 1918.
PRELUDIO
Il programma di questa rivista è nel titolo. È una rivista di coraggio, di volontà e di fede. Nasce accanto al quotidiano che un po’ tumultuosamente vede e riflette la vita nel suo fantastico caleidoscopio di cose, di uomini e di avvenimenti; nasce per rivedere. Cioè per vedere meglio, per vedere in estensione e in profondità. Intendiamoci: per rivedere, non attraverso gli occhiali gelidi del pedante e dell’accademico, ma cogli occhi fermi e puri che indagano, abbracciano e comprendono: gli occhi della giovinezza. Tutti quelli che cominciano, hanno oramai l’abitudine di lanciare questo grido: giovinezza. Ma per molti si tratta di uno sforzo vano o di una meschina illusione.
Ora, la giovinezza è soprattutto intuitiva: non è già come pensano i cattedratici, erudizione libresca. L’intuizione e la fantasia: ecco le ali dell’ingegno.
Ci sono nella realtà aspetti minuti e complessi che il grosso volgo non afferra che tardi. Ci sono nella vita dei cominciamenti che l’intelligenza dei mediocri trascura. Ci sono delle verità che bisogna proclamare, dei fermenti che bisogna esaltare, degli uomini che bisogna difendere, delle strade che bisogna battere senza preoccuparsi del «seguito». Per questo lavoro di artieri alacri e gioiosi, non c’è bisogno di posare a super-uomini con relativa torre d’avorio. È oramai un vecchio gioco. Che l’umanità sia buona o cattiva poco importa; che sia composta di angeli o di demoni, di santi o di canaglie, importa ancora meno. L’essenziale è di vivere dentro questa umanità, di coglierla dovunque e comunque si manifesti: nelle strade, nelle piazze, sui monti, sui mari, nelle città, nei villaggi dispersi, negli individui e nelle masse, nella fatica dei muscoli, nel brivido divino degli intelletti, nella passione esaltante di tutti gli amori. Ardita vuole questo. È nata per questo. Oserà: e per ciò sarà necessariamente delicata, inevitabilmente crudele come chi si accinge a segnare una direzione, a fissare una mèta alle inquietudini dello spirito moderno, oscillante tra le nostalgie dei mondi che crollano e le audacie dei mondi che sorpassa.
Ecco: io prendo queste pagine e le scaglio al pubblico perché le legga, le discuta, le stracci. Ardita va all’attacco e guarda in alto, e sceglie a guida, pel viaggio,
La stella più lontana
La stella più vicina.
Quella che sorge alla cera
E non tramonta alla mattina....
MUSSOLINI
Da Ardita, N. 1, 15 mazzo 1919, I.
23 MARZO
Mi ripromettevo, in questa settimana che precede la nostra adunata, di sviluppare con una serie di articoli le linee di quello che può essere il nostro programma di domani.
Rinuncio a questa esposizione, perché trattandosi della settimana risolutiva dei fondamentali problemi della pace, la politica estera assorbe tempo, spazio e attenzione, e poi perché l’ampia discussione dei mesi scorsi ha già «ambientato» i lettori del Popolo. Il resto verrà esposto, a voce, domenica da me e da altri. Oggi, mi limito a queste considerazioni.
Chi segue la vita politica nazionale, la scorge tutta pervasa dai fermenti dell’insofferenza verso l’insieme delle istituzioni e degli uomini che rappresentano il passato anacronistico e da una volontà profonda di rinnovazione. Accanto ai Partiti tradizionali, ne sono sorti in questi ultimi tempi due nuovi: il Partito Popolare Italiano e il Partito Liberale Riformatore. Al di sopra di questi Partiti stanno altre forze che domani potrebbero giocare una carta decisiva: le associazioni dei combattenti che spuntano in ogni città e in ogni villaggio d’Italia, e che molto probabilmente si raccoglieranno domani in un solo potente organismo, che avrà un’unità di mezzi e di scopi. Può darsi che il «trincerismo» annulli a un dato momento tutto il resto. Se si esaminano i programmi dei diversi Partiti e vecchi e nuovi, si vede ch’essi si rassomigliano. In certi postulati si identificano. Ciò che differenzia i Partiti, non è il programma; è il punto di partenza e il punto di arrivo.
Ora noi che non siamo dei vigliacchi maddaleni pentiti per via dell’offa che può essere rappresentata da un miserabile collegio elettorale, noi partiamo dal terreno della nazione, della guerra, della vittoria. Partiamo insomma dall’interventismo.
Questo ci divide irreparabilmente, non solo dal socialismo ufficiale, ma anche da tutti quei gruppetti e uomini che, forse vanamente, cercano per vie dirette o traverse e per motivi più o meno confessabili, di riaccostarsi al partitone, sommo dispensiere di grazie schedaiole. Tenendoci fermi sul terreno dell’interventismo — né potrebbe essere altrimenti, essendo stato l’interventismo il fatto dominante nella storia della Nazione — noi rivendichiamo il diritto e proclamiamo il dovere di trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi rivoluzionari, la vita italiana. Chi vorrebbe dipingerci come conservatori o reazionari, semplicemente perché non abbiamo più in tasca le tessere delle varie chiese, o perché non ci rassegniamo a gettare nell’Adriatico i centomila italiani della Dalmazia, è un poderoso imbecille.
Noi interventisti, siamo i soli che in Italia hanno diritto di parlare di rivoluzione. Forse per questo ne parliamo assai poco. Noi non abbiamo bisogno di attendere la rivoluzione, come fa il gregge tesserato, né la parola ci sgomenta come succede al mediocre pauroso che è rimasto col cervello al 1914. Noi abbiamo già fatto la rivoluzione. Nel maggio del 1915.
Noi prendiamo le mosse da quel maggio che fu squisitamente e divinamente rivoluzionario perché rovesciò una situazione di vergogna all’interno e decise — vedi intervista Ludendorff — le sorti della guerra mondiale.
Quello fu il primo episodio della rivoluzione. Fu l’inizio. La rivoluzione è continuata sotto il nome di guerra, per quaranta mesi. Non è finita. Può avere e non può avere il decorso drammatico che impressiona. Può avere un ritmo più o meno affrettato. Ma continua. Senza la rivoluzione che facemmo nel maggio del 1915, a quest’ora il Kaiser avrebbe piantato un principe prussiano a Parigi, e l’Europa, diventata una colonia e una caserma teutonica, avrebbe vissuto lunghi