3. Alla Costituente dell’interventismo italiano saranno consacrate le soluzioni dei problemi fondamentali della nostra nazione.
4. Dalla Costituente dell’interventismo italiano uscirà l’anti-partito, cioè una organizzazione «fascista» che non avrà nulla di comune coi «credi», coi «dogmi», colla «mentalità» e soprattutto colle «pregiudiziali» dei vecchi Partiti, in quanto permetterà la coesistenza e la comunità di azione di tutti coloro — quali si siano i loro credi politici, religiosi, economici — che accettano una data soluzione di dati problemi.
5. La Costituente dell’interventismo italiano è il preludio alla Costituente del popolo italiano e i Fasci per la Costituente devono costituire lo scheletro, l’armatura attorno a cui raccogliere i ritornanti e le loro energie potentemente rinnovatrici. I vecchi Partiti sono reliquie cadaveriche e non sarà difficile sommergerli del tutto.
Riassumendo:
Noi poniamo dei problemi;
Noi presentiamo le soluzioni di questi problemi;
Noi costituiamo gli organi di agitazione o di imposizione di questi problemi;
Noi — se sarà necessario — convertiremo nei modi e nelle forme dettate dalla nostra volontà e dagli eventi gli organi di agitazione in organi di attuazione delle soluzioni di quei dati problemi.
Per l’agitazione e per l’attuazione di tutto ciò che sarà necessario onde rinnovare dal profondo tutta la vita italiana noi contiamo soprattutto sui trinceristi. Contiamo sulla loro volontà temprata al sacrificio. Sulla loro disciplina morale. Sulla loro magnifica giovinezza acerba e matura.
Viva i «Fasci della Costituente» e al lavoro senza indugio!
MUSSOLINI
Da Il Popolo d’Italia, N. 324, 23 novembre 1918, V.
FIUME SARA ITALIANA A QUALUNQUE COSTO
Fiumani!
Io comprendo e vivo della vostra passione profonda d’italianità. Da quattro anni, dal novembre del 1914, quando lanciai al pubblico il mio giornale, ho sempre sostenuto i vostri e i diritti d’Italia. Non ho mai dimenticato le città allora irredente, Trento, Trieste e Fiume. Dal 1914 in poi ho sempre scritto e dimostrato che non si poteva considerare completa l’unità dell’Italia se Fiume non fosse ricongiunta alla madrepatria, se la Dalmazia, che è sempre stata italianissima, non fosse tornata sotto il tricolore d’Italia. (Applausi). Ora, dopo la grande fulgida vittoria italiana, è venuto il tempo di rivendicare i diritti d’Italia. («Bravo! Bene!»).
La nostra vittoria è incontestabile e conseguita puramente con le armi, al prezzo del sangue italiano. Se io vi dico questo, non ve lo dico soltanto come giornalista, poiché anch’io sono stato per 17 mesi soldato; ed in quel tempo ho avuto campo di misurare, di conoscere lo spirito del soldato italiano. Quando penso al grande numero di morti e di feriti italiani, sento che nessuno — amico, nemico o neutrale — può tentare di svalutare la vittoria italiana. Noi abbiamo vinto militarmente, sino all’ultimo momento della grande lotta. Nell’ultimo giorno al Piave caddero ben mille ufficiali; immaginate ora quanti soldati saranno morti! Abbiamo vinto e perciò impediremo a chiunque di menomare la nostra vittoria. Abbiamo vinto, perciò abbiamo diritto di utilizzare la vittoria, di agire da vincitori e di fissare i nostri nuovi confini. Nessuno può pensare che la nostra vittoria possa essere frodata, mutilata!
Quando traversai la zona veneta devastata dalla guerra, mi son detto: L’Italia non deve mai più sopportare un’invasione, non deve permettere mai più una minaccia alle sue porte. Il tricolore italiano deve sventolare sul Brennero anche se con ciò si dovrà comprendere entro i nostri confini un certo numero di tedeschi; né d’altra parte croati e sloveni si troveranno fra noi a disagio, poiché noi italiani siamo liberali. Per questo io dico: invasioni mai più! (Applausi). Per tutte le nazioni la delimitazione di confini è una difficoltà e forse sola in tutta Europa l’Italia è nettamente, chiaramente determinata: il mare e le Alpi. E noi non possiamo fare dei sacrifici. Li faremo quando anche gli altri si mostreranno disposti a farli. («Benissimo!»). Se la Francia vuole le due rive del Reno allo scopo di garantirsi per sempre contro i tedeschi, se l’Inghilterra si tiene ancora Malta per le sue ragioni strategiche, queste ragioni devono valere anche per noi, perché anche noi abbiamo combattuto col sacrificio del nostro miglior sangue. («Benissimo!»).
Si dice che verrà Wilson a sistemare le questioni di questa vecchia Europa! E va bene. Io m’inchino dinanzi a questo duce dei popoli, riconosco che l’intervento americano ha agevolata la fine della guerra. Noi siamo disposti ad accettare i suoi punti; ma egli, Wilson, per conoscere a fondo le nostre questioni, dovrà vivere tra noi, nei nostri paesi; dovrà farsi un giudizio chiaro del nostro modo di vivere, delle nostre sacre idealità. Il grande Presidente di 110 milioni di sudditi dovrà convincersi che «una città» per noi è parte della nostra carne. Perciò, prima di esprimersi, dovrà anzitutto orientarsi e constatare dove stanno la giustizia, il diritto e dove sta la barbarie. Fiume non fu croata mai! (Fragorosissimi applausi). Fiume non fu mai ungherese e solo politicamente non era italiana. Ma Fiume dice in forma plebiscitaria: voglio essere italiana. E Wilson in omaggio ai suoi principî dovrà dire: Fiume deve essere italiana. Riguardo a Fiume non vi sono altre soluzioni: deve essere italiana! (Applausi altissimi).
A Parigi la diplomazia ora deve lavorare; ma son passati i tempi dei compromessi. L’autonomia di Fiume è un non senso, come un non senso è la questione della repubblichetta di Fiume. (Risa generali. Alcune voci: «Croati camuffati da socialisti vogliono la repubblica!»). Ne abbiamo una, è vero, quella di San Marino, ma se è comprensibile questa, attorniata da italiani, ben diversa è la città di Fiume che a poche decine di passi ha addosso tutto il mondo slavo. Quel mondo che durante la guerra predicava la libertà dei popoli e che il giorno in cui con violenza si impossessò di Fiume telegrafò al mondo: Fiume è ritornata alla madrepatria! (Fischi e grida: «Vigliacchi!»).
Fiumani!
Il destino di Fiume è garantito soltanto con l’annessione all’Italia. («Bene! bravo!» applausi). L’Italia può rivendicare Fiume per storia, per lingua, per tradizione e per volontà. Vi posso assicurare che in Italia vi è una formidabile azione in favore di Fiume. Se questa famosa Jugoslavia, che non so se nascerà e quando, avrà bisogno di affacciarsi al mare, noi potremo intenderci. («Bravo! Bene!»). L’Italia è liberale e portatrice di civiltà. Quando l’Italia romana dava per la terza volta la civiltà al mondo, quella gente era al crepuscolo della civiltà. Essa viveva ancora nelle caverne quando l’Italia aveva già Dante Alighieri!
L’oratore accenna poi alle lotte per l’unità d’Italia, ai suoi martiri condannati alle galere, ai patiboli austriaci. Dice del Martire, la cui memoria si esalta oggi, cioè di Guglielmo Oberdan.
Tornato da Roma a Trieste, l’anima fremente di sante idealità patrie, è arrestato e gettato in carcere. Bastava che chiedesse la grazia perché gli fosse risparmiata la vita; ma Guglielmo Oberdan non obbedì all’istinto di conservazione: «No! — disse — io debbo andare al patibolo, debbo porgere il collo al laccio del boia, perché fra l’Italia e l’Austria vi sia il mio cadavere». E in quell’anno, il 1882, la vecchia forca austriaca non si smentì. Ma Oberdan sopravvisse alla forca come un simbolo. Nella tenebra di quegli anni ingloriosi il suo nome sfolgorò di luce e tenne accesa la speranza come una fiaccola. Il lungo silenzio che seguì al suo supplizio non era che l’ansiosa attesa dell’apoteosi che doveva venire. Ogni grande è precursore di tutte le grandezze; e alle terre e alle genti adriatiche bisognava arrivare non solo per i vivi che attendevano ma per quel Morto che doveva essere vendicato dalla vittoria delle armi italiane. Ora Oberdan sorride alla sua Trieste con la stessa serenità con la quale seppe cogliere l’attimo storico e morire per il sublime sogno di redenzione della sua città.
Mussolini ricorda anche i gloriosi martiri della grande guerra: il Rismondo della romana Spalato, il Sauro di Capodistria, il Battisti di Trento. Ricorda i volontari delle terre redente fuggiti dalle proprie città per correre ad arruolarsi nell’esercito e per morire sul Carso.
Ed