Nascita del Fascismo. Benito Mussolini. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Benito Mussolini
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Документальная литература
Год издания: 0
isbn: 9783967991598
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Vogliamo noi — spiriti spregiudicati — credere in un solo Vangelo e giurare in un solo Maestro? O non vale la pena — in quelle che sono epoche di liquidazione — di gettare nella grande fucina ardente della Storia i nostri «valori politici e morali», per sceverare in essi l’eterno dal transitorio, ciò che passa da ciò che non muore? È mai possibile nel campo sconfinato dello spirito la monogamia delle idee? Non è ciò un «auto negarsi» alla più diretta e profonda comprensione della vita e dell’Universo? La vita è varia, complessa, multiforme: ricca di possibilità, fertile di sorprese, prodiga di contraddizioni. Chi è lo stolto che pretende di violentarla nel breve capestro di una formula, nella schematica proposizione di un dogma? Libertà, dunque: libertà infinita! Sàndor Petöfi gridava:

      La vita mi è cara

      L’amore ancor più,

      Ma per la libertà

      Li do entrambi!

      Libertà di ripudiare Marx, se Marx è invecchiato e finito; libertà di tornare a Mazzini se Mazzini dice alle nostre anime aspettanti la parola che ci esalta in un senso superiore dell’umanità nostra; libertà di tornare a Proudhon, a Bakunin, a Fourier, a S. Simon, a Owen, e a Ferrari, e a Pisacane, e a Cattaneo..., agli antichi e ai recenti; ai vivi e ai morti, purché insomma il «verbo» sia capace di fecondare l’azione....

      Il De Ambris non poteva — data l’ora e il luogo — che affacciare la possibilità e la necessità di questa demolizione e ricostruzione di dottrine; ma io credo che — passata la tormenta della guerra — questo sarà il compito arduo e preliminare della nuova critica socialista.

      Ecco il bilancio della prima adunata dei «Fasci». Non mi pento di averla definita «grande». Non eravamo in molti, ma — se ci tenessimo al numero — potremmo dire che non siamo più in pochi. I «Fasci» contano oltre cinquemila inscritti, e niente vieta di sperare che tale cifra sarà raddoppiata e triplicata nel volger di un mese.... Ma l’adunata fu «grande», perché fu «nuova», perché fu compresa della gravità del momento attuale e n’ebbe potrei dire — l’estremo pudore, e l’alto senso di responsabilità.... La buona sementa fu gettata e si vedrà: non invano!

      MUSSOLINI

      Da Il Popolo d’Italia, N. 28, 28 gennaio 1915, II.

      AGLI AMICI

      Poche parole e chiare, agli amici, ai simpatizzanti, ai lettori. E per una volta tanto. L’unica. Chiedo, ma non intendo di andare in giro col cappello. Chiedo oggi, dopo tre mesi. Non l’avrei fatto, non l’ho fatto dopo tre giorni di vita del giornale. Ai quindici di novembre il giornale era una speranza o una promessa. Bisogna credermi sulla parola ed era — da parte mia — troppo pretendere in un paese di ipocriti, di sornioni, di poltroni, di maldicenti. Oggi, le cose sono cambiate. Oggi c’è il fatto compiuto. C’è un grande giornale che — a giudizio dei competenti e a giudizio unanime del pubblico sovrano — è uno dei migliori d’Italia. Un giornale moderno, libero, spregiudicato: un organismo pieno di sangue, ricco di nervature, sodo di muscoli: un giornale di notizie, di pensiero, di polemica; un giornale di vita, ben fatto, leggibile, variato, interessante. Gli avversari, a denti stretti e colla bile in corpo, devono riconoscerlo. È un organismo già formato. Sono stati, questi, mesi di lavoro frenetico. Ma tutto è ormai al punto. Abbiamo qualche centinaio di corrispondenti disseminati in tutta Italia, dai grandissimi centri ai più remoti paesi. Dall’estero siamo informati dai nostri inviati speciali a Parigi e a Londra. Il servizio politico da Roma è — specie per ciò che riguarda la politica estera — diligente e coscienzioso, assolutamente indipendente. La migliore, irrefutabile testimonianza è la collezione del giornale. Si spiega, con queste ragioni, che vado prospettando rapidamente, il successo del Popolo, la sua rapida e larga diffusione dovunque, e nei paesi delle vallate nevose del Piemonte e nelle borgate dell’ardente Sicilia o nella dimenticata Sardegna. Sono relativamente contento del mio lavoro. Ma sento che c’è la possibilità di fare ancora di più, molto di più. Ci sono dei progetti da tradurre nella realtà. Dei progetti che fermentano —per ora — nel mio cervello.

      Per l’attuazione di tali progetti occorre del denaro. Non posso dir quanto. Occorre del denaro. I milioni non esistono. Esistono solo e sono —ahimè — molti, troppi, gli imbecilli e i malvagi che me li hanno regalati sbrigliando le fantasie. Ma la realtà è diversa. Io non chiedo milioni. Chiedo l’aiuto degli amici, dei simpatizzanti, dei lettori. Chiedo degli abbonati, chiedo dei sottoscrittori. Non apro, però, la sottoscrizione pubblica, che si risolve sempre in una piccola fiera della vanità.

      Ho finito. Le parole sono state poche. Non ripeterò questa specie di appello. Chi vuol intendere, intenda: chi vuol dare, dia. Salute!

      MUSSOLINI

      Da Il Popolo d’Italia, N. 41, 10 febbraio 1915, II.

      LA NOSTRA COSTITUENTE

      Il Popolo d’Italia convoca per i primi di dicembre a Milano la «Costituente» dell’interventismo italiano. Questa qualifica di interventismo è, dal punto di vista della semplice cronologia, già anacronistica e di puro valore retrospettivo. L’intervento c’è stato. Abbiamo fatto la guerra anche alla Germania. Abbiamo vinto, stravinto gli Imperi Centrali che non esistono più.

      Tuttavia la parola «interventismo» ha ancora un valore storico, attuale, immanente.

      Noi tutti che volemmo l’intervento siamo necessariamente legati al fatto storico che contribuimmo con tutte le nostre forze e tutte le nostre passioni a determinare e siamo quindi legati alla situazione che si è delineata in conseguenza dell’intervento. Se nostra, in un certo senso, fu la guerra, nostro dev’essere il dopoguerra, poiché tra l’uno e l’altro evento non esiste soluzione di continuità. Il dopo-guerra deve trovarci in linea, all’avanguardia, noi che volemmo la guerra e la volemmo per ragioni che hanno avuto la più alta, la più pura, la più decisiva delle consacrazioni.

      Noi dobbiamo affrontare i problemi del dopo-guerra. Noi dobbiamo presentare le «nostre» soluzioni per i problemi del dopoguerra. Senza indugio, poiché l’ora non ne consente. I problemi del dopo-guerra si possono raggruppare in due grandi categorie: quelli d’ordine politico, quelli d’ordine economico. I primi riguardano la totalità degli italiani, i secondi le classi produttrici. Bisogna fissare i nostri postulati chiari e verso la loro realizzazione convogliare la coscienza nazionale.

      L’epoca dei programmi avveniristici è finita. Quella metafisica valeva per altri tempi, quando per aprire le menti oscurate bisognava dischiudere colla fantasia i paradisiaci cieli del futuro. Oggi, non più. Oggi, gli uomini vogliono «realizzare». Anelano a «realizzare». Hanno la fretta di «vedere» qualche cosa.

      Guai a coloro che non avvertono questi «stati d’animo» delle masse.

      Un anno fa, comparvero su questo giornale i «postulati» per la resistenza.

      I lettori ricordano. Dopo un anno, conclusa trionfalmente la guerra, fisseremo i postulati del nostro dopo-guerra. Non importa se alcuni punti saranno comuni ad altri Partiti che non vollero o sabotarono la guerra.

      Questi signori muovono da un terreno diverso dal nostro. La loro posizione è falsa e difficile. Tutto ciò che è avvenuto, è avvenuto contro di loro. Tutto ciò che sarà, sarà la loro condanna. Non bisogna mai dimenticare che se la tesi dei socialisti ufficiali avesse trionfato, oggi il Kaiser invece di riparare, fuggiasco, in Olanda, sarebbe a Berlino, imperatore di un nuovo Sacro Impero germanico, dilatato a tutta l’Europa. Non si sarebbe levato nessun vento impetuoso di rinnovazione dalle trincee, se il chiodo prussiano fosse diventato l’arbitro del nuovo Impero. Non ci sarebbe stata questa sorprendente primavera di popoli, se la Germania non fosse stata battuta. Se i socialisti ufficiali italiani fossero riusciti ad impedire l’intervento dell’Italia, la storia avrebbe avuto un corso antitetico a quello che ha avuto e il proletariato italiano non si troverebbe oggi in grado di richiedere l’attuazione di alcuni dei suoi postulati fondamentali. Ma bisogna che gli interventisti si decidano. Essi non possono e non devono, in odio ai socialisti ufficiali, respingere il lavoro che è rimasto nel paese e soprattutto quello che tornerà dalle trincee. Che l’atteggiamento