I segretari contestati contrattaccano. In un comunicato stringatissimo, ma furioso, i due sindacalisti stigmatizzano lâatteggiamento dei rappresentanti dei lavoratori e rinviano lâincontro già fissato al Ministero del Lavoro, il 12 novembre. Al tempo stesso verrà organizzata unâassemblea dei lavoratori per porre fine a ogni interpretazione di ciò che è stato deciso nellâultima assemblea.
Lâesito di questa seconda assemblea lo lasciamo descrivere a Fullin:
« A pochi giorni di distanza, di nuovo in assemblea, la maggioranza che aveva ratificato lâaccordo si riduce a pochi voti e tra questi cominciano a prevalere i distinguo» (41. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994, p. 131).
Il cronista de Il Gazzettino di Venezia Paolo Navarro â che a differenza di Fullin è presente allâassemblea â sul quotidiano uscito il giorno dopo lâassemblea, cioè il 17 di novembre, scrive:
«à stata dura, durissima, ma alla fine i sindacati hanno vinto... Oggi, alle 14.30, a Roma, nella sede del Ministero del Lavoro... firmeranno la âbozza di accordoâ elaborata quindici giorni fa...» (42. Navarro P., Alucentro vincono i sindacati ma la maggioranza è risicata, « Il Gazzettino di Venezia», 17 novembre 1992).
à lâaccordo che aprirà la strada alla nascita di una nuova attività produttiva. Ma unâaltra divisione vedrà contrapposti nei mesi successivi il Cdf e i sindacati. Chi dovrà gestire la nascita della nuova attività ? In campo ci saranno due proposte, una della Cesam, unâimpresa creata dalla Compagnia Lavoratori Portuali, e lâaltra di una società formata da una cordata di imprenditori locali. Il Cdf è più incline alla proposta della Cesam, i sindacati, invece, allâaltra, che poi darà origine al Centro Intermodale Adriatico. Lasciamo ancora parlare Fullin:
âIl 7 maggio 1993 si arriva finalmente allâaccordo di cessione, firmato a Roma e preceduto, due giorni prima, dalla definizione dellâintera materia a livello locale tra tutte le parti interessate... non prima del 15 novembre 1993, data fissata per il rogito, al Centro Intermodale Adriatico, che, a differenza della Cesam, si impegna a riassumere, nel tempo ma in tempi certi, tutte le maestranze. Ã una vittoria, finalmente, vera. Inoltre, essa conferma quello che i lavoratori dellâAlucentro hanno pensato fin dallâinizio...â (43. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, cit., pp. 132-133).
Ma su quali basi si esprime un simile giudizio, che stravolge fatti facilmente ricostruibili su base documentale? Si è chiesto Fullin se i lavoratori sarebbero stati parimenti in grado di esprimere questo giudizio senza lâapprovazione dellâaccordo grazie a quella votazione che lui stesso ha definito a âmaggioranza risicataâ? E si è chiesto in quali condizioni si sarebbero ritrovati i lavoratori dellâAlucentro se la loro lotta in difesa dellâoccupazione fosse stata impostata, come voleva il Consiglio di fabbrica, sulla difesa dellâattività esistente e cioè mantenendo le produzioni di anodi? E chi sarebbe stato considerato responsabile di una sconfitta sicuramente pesante? Negli anni successivi tutti i lavoratori ex Alucentro rimasti senza lavoro sono stati riassorbiti dal Centro Intermodale Adriatico, dopo un periodo di formazione professionale. Gli imprenditori rimasti nella nuova società crearono accanto al Centro Intermodale Adriatico la società immobiliare Interporto di Venezia SpA, che ha proseguito in una costante politica di sviluppo nel settore della logistica, portando le aree utilizzate a tale scopo dai 227.470 mq del 1993 ai 296.500 del 2004. Rimane da chiedersi solo chi ha meglio interpretato ciò «che i lavoratori dellâAlucentro hanno pensato sin dallâinizio» non tanto per distribuire voti, quanto per capire come accanto a inevitabili processi âoggettiviâ complicati e difficili da risolvere si aggiungono altrettanti problemi che hanno una natura âsoggettivaâ e se la gestione di un tale processo realizzata con una significativa partecipazione può sempre aiutare la ricerca della soluzione possibile.
Difesa dellâoccupazione e condizioni di lavoro: il caso Fincantieri
A Porto Marghera gli effetti di questa intensa, diffusa e prolungata lotta per (non perdere) il lavoro hanno finito per concentrare la discussione e le iniziative sindacali quasi esclusivamente sul terreno delle politiche industriali e occupazionali. Ciò è vero per la grande fabbrica sindacalizzata e con una forte presenza allâinterno dei partiti politici, cioè per realtà produttive nettamente minoritarie rispetto a quelle dove risulta impiegata la quota principale del lavoro dipendente. Infatti la realtà delle piccole aziende ha visto processi più intensi di sfruttamento e di peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita. Pur tuttavia non va dimenticato che la âminoranzaâ delle grandi fabbriche, avanzando, ha finito per âtrascinarsiâ dietro nel lâesercizio dei diritti, come sul salario, anche la maggioranza del lavoro dipendente delle piccole aziende. Pensiamo ad alcune significative conquiste che sono state estese a tutti i lavoratori dipendenti, come lâinquadramento unico dei metalmeccanici (1973) o il diritto allâinformazione sui piani produttivi e sugli investimenti delle aziende (1976).
Pensiamo, poi, ad alcuni grandi obiettivi che hanno rappresentato per il sindacato, nelle fasi di crescita, un terreno di ulteriori e significative acquisizioni attraverso la contrattazione:
1) le qualifiche professionali come strumento per intervenire e controllare lâorganizzazione del lavoro e, quindi, lo sviluppo professionale di ogni singolo lavoratore; 2) il controllo dei ritmi di lavoro; 3) lâintervento sullâambiente di lavoro attraverso lâeliminazione di tutti i fattori portatori di nocività per i lavoratori come pure per il territorio circostante; 4) il controllo degli orari di fatto; 5) il salario aziendale.
Molte delle vertenze aziendali condotte su questi temi avevano spesso avviato momenti di sperimentazione, stravolti e superati con il sopraggiungere delle crisi aziendali. La mancanza di lavoro finisce inevitabilmente per mutare i rapporti di forza nei luoghi di lavoro a danno dei lavoratori. Lâesempio dello stabilimento di Porto Marghera, del gruppo Fincantieri, è illuminante (44. Aiello A., La Fincantieri e la crisi della cantieristica italiana, in «Economia e società regionale», 2, 2004). A metà degli anni Ottanta il cantiere veneziano passa dal gruppo Efim allâIri, proprio mentre vive una delle crisi più difficili della sua storia. La mancanza di lavoro investe tutti i cantieri di costruzione in Italia. Il sindacato, per rispondere a questa difficile situazione, chiede e ottiene lâapertura di un negoziato a livello nazionale, con Governo e Fincantieri, per acquisire provvedimenti idonei al superamento delle difficoltà . Lâiniziativa sindacale finirà per concentrarsi, però, quasi esclusivamente sullâemergenza occupazionale. Del resto le preoccupazioni nei cantieri, da Palermo a Monfalcone, vedono tutti coinvolti: operai, impiegati, tecnici, dirigenti. Una fase, questa, che sarà superata grazie alle âleggi di sostegnoâ al settore navalmeccanico emanate dal Governo. Ma si imporranno,