à lâaffermazione che strumenti di programmazione territoriale vengono sottratti ai poteri pubblici e gestiti direttamente dagli imprenditori privati. Ciò vuol dire che sullâarea dove è previsto lâinsediamento di aziende loro hanno piena libertà di fare e disfare, senza alcun controllo pubblico. Immaginiamo quanti guasti ha creato questa condizione? Senza questa gestione del potere privato sarebbe stato possibile costruire unâaltra Porto Marghera? Trovo legittimo porsi questa domanda.
Come si è agito per contrastare questo âstrapotereâ dellâimprenditoria privata?
Il nostro dibattito non ha avuto un andamento sempre lineare, influenzato, come è ovvio, da altri soggetti. Vi erano in campo diverse proposte: per esempio quella di Italia Nostra che, fino al 1964-65, sosteneva una linea di sostanziale conservazione dellâesistente, comprensibile se volta a ostacolare un pesante processo di manomissione dellâambiente, ma che non poteva essere condivisa in quanto appariva contraria a ogni ipotesi di sviluppo industriale, anche se compatibile. Poi vi erano le posizioni degli industriali sostenute da parte della Dc, che volevano lo sviluppo del polo industriale. Unâaltra parte della Dc sosteneva lâidea di realizzare âuna fabbrica per ogni campanileâ, una logica, cioè, di sviluppo diffuso che finiva per produrre unâeccessiva polverizzazione e quindi un indebolimento del tessuto industriale.
E la sinistra?
Infine vi eravamo noi del Pci che, con parti importanti del Psi (escluso De Michelis, sensibile allo sviluppo della chimica) e il sindacato, proponevamo un decentramento degli insediamenti industriali in varie località della provincia, compresa naturalmente Porto Marghera, considerate le condizioni economiche e sociali e le compatibilità ambientali delle diverse aree. Una simile linea di sviluppo chiamava in causa la necessità di una âprogrammazione democraticaâ dello sviluppo economico della provincia di Venezia e di unâarea ancora più vasta.
Cosa è successo nel 1966?
Incominciano a farsi sentire gli obiettivi sociali. Fino ad allora i comunisti erano contro le leggi speciali, perché, come abbiamo visto dal 1928, finivano per essere strumenti nelle mani dei padroni, usati a loro esclusivo vantaggio. Lâacqua alta del â66 a Venezia ci spinge a uscire dallo schema legge speciale sì-legge speciale no. Il dibattito si apre sul tema: quale legge speciale? Non solo questioni economiche ma anche sociali. Ciò significa, per Venezia, ad esempio, quale politica per la casa? Quale risanamento conservativo? Come stimolare processi di rivitalizzazione sociale ed economica? Come intervenire per assicurare in futuro lâesistenza fisica di Venezia? E quale politica per le attività produttive? E mentre per Venezia si apre questo tipo di discussione, si incominciano a sentire gli effetti della ârivoluzione agricolaâ.
Puoi entrare nel merito di questâultimo argomento e, soprattutto, che rapporto vi è tra agricoltura e Porto Marghera?
Si può affrontare questo argomento dal punto di vista della manodopera. Lâagricoltura negli anni Sessanta è stata oggetto di un processo spinto di meccanizzazione. Le macchine hanno provocato lâespulsione di braccianti e mezzadri dallâagricoltura. Si è resa, così, disponibile una notevole quantità di manodopera a basso costo. Per le stesse famiglie contadine lâimpiego di mariti e figli a Porto Marghera ha significato più soldi disponibili e in più il fatto che il reddito familiare proveniva da fonti diversificate e non più dal solo lavoro nelle campagne. Cambiavano così in meglio le condizioni di vita. Vi era quindi una spinta dei lavoratori prima occupati in agricoltura per lavorare a Marghera, vedevano in ciò un miglioramento delle loro condizioni. Questo era utilizzato dalle forze che operavano per lo sviluppo del polo industriale.
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