Furono queste le sue ultime parole; dopo di che egli si alzò e si ritrasse nelle sue stanze. Trebazio, un orrido ceffo, venne da me e non mi lasciò per tutto il giorno; inutile precauzione, dacchè l'ufficio troppo bene rispondeva alla mia sete di vendetta, e, dopo tutto, non era agevole uscire dal palazzo di Almaco, nel quale ero rinchiuso.
A tarda notte uscimmo, accompagnati da pochi soldati. Il grosso della coorte era già disseminato a crocchi nei pressi delle carceri Mamertine, aspettando il nostro arrivo.
La notte cupa aiutava ad agevolar l'intrapresa. Come fummo alla casa detta da Almaco, Trebazio percosse tre leggeri colpi sull'uscio con le nocche delle dita. La vedova venne ad aprirci, e ci mise dentro coi nostri.
La casa era di meschina apparenza e quasi priva di arredi; ma più dolente era l'aspetto della donna, su cui mi parve leggere come un rimorso dell'ufficio a cui s'era prestata.
– Ci sono? – le chiese Trebazio.
Ella rispose affermativamente col capo, e additò nel fondo della casa una botola, coperta da una cateratta, che Trebazio fu sollecito ad alzare, discoprendo una rozza scala di pietra.
Il lezzo del sotterraneo mi salì alle nari; ma l'ansia di trovar Valeriano mi fece correre il primo in quella buia ed umida chiostra. Gli altri mi tennero dietro con passo leggero, e fatti trenta scalini ci trovammo in un andito, lungo il quale ci fu mestieri andare a tentoni, seguendo la parete.
Così c'inoltrammo un bel tratto, fino a tanto che scorgemmo in lontananza un filo di luce pallida, mercè il quale si potè andare più speditamente. Poco più oltre il punto da dove avevamo cominciato a scorgere il lume, la muratura finiva e l'andito si allargava a forma di sala. Altre sale, informi, e scavate nel masso, con rozzi pilastri qua e là per sostenere le vôlte, si succedevano lungo il nostro cammino.
Man mano la luce si fece più viva, e cominciammo a udire un canto sommesso di molte voci. Allora feci fermare i miei uomini, per dividerli in tre drappelli, due dei quali dovevano farsi innanzi dai due lati dell'ampio sotterraneo, rasentando le pareti che restavano nell'ombra, per ricongiungersi quando fossero proprio addosso alla conventicola. Io, con gli altri, mi feci innanzi dal mezzo, giovandomi di tutte le ombre dei pilastri, e rattenendo il respiro.
Allo svoltar di una di quelle informi colonne, era un uomo appostato. Fece per aprir la bocca e gridare; ma Trebazio fu più sollecito di lui, e gli ficcò il suo ferro nella strozza, che gorgogliò, ma senza forza, quelle parole con cui voleva dare il segnale agli amici.
VII
– Ottimamente! – dissi a Trebazio. – Hai fatto un bel colpo, e senza la tua prontezza i galilei sarebbero stati posti in sull'avviso.
L'uomo colpito dalla spada di Trebazio era stramazzato a terra, e non dava più segno di vita. Però non ce ne curammo più oltre, e, sgomberataci per tal modo la via, c'inoltrammo ancora sotto le arcate, e allo svoltar di un angolo ci trovammo sopra alla conventicola dei cristiani.
Da quanto posso oggi ricordarmene, era una vasta sala, rozza come tutte le altre già percorse, e non doveva servire che da poco ad uso di tempio, imperocchè era ignuda affatto di fregi, non aveva sarcofaghi, nè epigrafi, nè alcuno di quelli emblemi che più tardi ebbi a notare nelle sotterranee dimore della setta. Rischiaravano il luogo alcune faci di resina, e al rossastro chiarore di queste potemmo scorgere forse un centinaio di uomini e donne, quelli col capo scoverto e queste col velo tirato sul volto, che stavano ginocchioni dinanzi ad un vecchio, coperto di una lunga tonaca bianca, il quale sembrava in atto di parlare.
Ma noi non udimmo parola del suo discorso, perchè al nostro sbucar nella sala un lungo grido di terrore interruppe la cerimonia, e cominciò tosto uno scompiglio da non potersi descrivere.
I miei occhi, guidati dallo spirito della vendetta, trovarono subito Valeriano. Egli si era rizzato in piedi a stava in mezzo a otto o dieci che, più animosi degli altri, avevano posto mano ai ferri.
Mi feci innanzi, mentre i miei si precipitavano sulla moltitudine spaventata, e gridai:
– A me, Valeriano! a me! —
Egli snudò la spada, ma io gli fui sopra, innanzi che potesse mettersi in guardia, tempestandolo di colpi. Valeriano disputò tuttavia, ed aspramente, la sua vita; ma parecchi dei miei, che avevano ottenuto facile vittoria sui pochi compagni del mio nemico, gli furono a' fianchi e lo rovesciarono. Egli allora gittò lungi da sè la spada e morì sotto il mio ferro, più nobilmente che io non avessi voluto, dicendomi: «ferisci, carnefice, e che Iddio ti perdoni!»
Questa bisogna fu spedita in breve ora. I miei soldati non erano stati neppur essi con le mani alla cintola; molti dei cristiani erano caduti nel loro sangue sul pavimento, altri legati e spinti, a furia di mani e di piedi, contro i pilastri della sala. Parecchi si erano dati alla fuga; ma, perdutisi nel buio, non erano venuti a capo di trovare un altro andito per cui avrebbero potuto mettersi in salvo; e le loro grida, il rumore delle frequenti cadute, gli urli feroci dei miei, mostravano qual fine si avessero i loro tentativi. E intanto le donne, atterrite, trepidanti, si erano andate a raccogliere, come un timido gregge, intorno al vecchio dalla tonaca bianca, il quale, solo imperterrito, stava con le mani alzate verso il cielo e pregava.
Tutte queste cose io vidi a mala pena, in quella che, col ginocchio sul petto a Valeriano, raddoppiavo furente i miei colpi. E appunto allora, una donna, che non era fuggita insieme con le altre, mi pose ambe le mani sul braccio, tentando di rattenermi, e gridò:
– Codardo! tu infellonisci contro un cadavere! —
A quella voce, che mi parve di riconoscere, tremai tutto quanto; alzai gli occhi a guardarla, ed essa allora diede in un forte grido e cadde come corpo morto nelle mie braccia. Il velo le era caduto dal volto: era Cecilia.
Qual fui allora? Quale mi apparve la vita? Cecilia! Cecilia in quel luogo, in mezzo a quella strage! Voi già immaginate quanti pensieri mi assalsero improvvisi in quel punto. La mia vendetta era sazia; il furore sbollito; ed io vedevo tutto ad un tratto l'orrore di quella scena di sangue, e l'angoscioso stato di quella donna divina.
Andando colà, io non avevo badato che ad uccidere Valeriano; il pensiero che Cecilia si fosse potuta trovare con lui non mi era neppur balenato alla mente. Ma era troppo tardi… E come salvarla? Anelante, agitato da mille confusi timori, e quasi fuori di me, in quella che avrei pure avuto mestieri di tutto il mio senno, io restai là, chino sul petto dell'amata donna, non curando le strida delle femmine trepidanti, nè il rantolo dei moribondi, nè il gavazzar dei compagni.
Il primo consiglio che mi sovvenne fu quello di chiamar soccorso. Alzai la testa; ma lo spettacolo che si parò dinanzi ai miei occhi mi gelò le parole sulle labbra. Una povera donna tentava invano di svincolarsi dalle strette di un soldato, che, mezzo ginocchioni, col volto acceso, col mento appoggiato sul petto della meschina, mentre con le mani la teneva avvinghiata, lei riluttante buttava al suolo. Scene simiglianti io avevo vedute di spesso, con occhi non curanti, nella mia vita di soldato, in ogni borgata di Germania da noi messa a ferro e a fuoco, pel feroce diritto di vincitori. Ma là, nel sotterraneo, io vedevo le cose sotto il più orrido aspetto. Cecilia, non la moglie di Valeriano, ma la divina fanciulla che io avevo tanto amata, che anche allora mi faceva riardere in seno la fiamma antica con tutta la casta virtù delle ricordanze, era in quel covo di belve umane, fuori dei sensi, colla bionda testa arrovesciata sulle mie braccia, senz'altro scudo, senz'altra difesa che l'uccisore di suo marito, il condottiero di quella coorte sfrenata, libera esecutrice di sanguinari comandi.
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