– Eccola qui. Andiamo a passeggio tra Campetto, le Vigne e San Siro, a veder passare le belle signore che vanno attorno per fare incetta di nastri e di occhiate.
– Passa la bella donna e par che dorma – mormorò Tito a sua volta. – Cercane un'altra.
– Orvia, signori, vi contento subito e vo a cercarla. Chi mi vuol bene mi segua. – E così dicendo, mi alzai. Gli altri, per un tratto, volevano menare in lungo lo scherzo, e sapere, prima di alzarsi, che cosa si sarebbe fatto; ma, veduto che io ero già presso l'uscio, ed anche perchè si annoiavano a star seduti, borbottando un pochettino contro la prepotenza, la tirannia, e simiglianti, si alzarono anch'essi.
Così, senza por tempo in mezzo, tutti e cinque ce ne andammo via dal Gran Corso, con molta soddisfazione di due colonnelli a riposo, i quali stavano ad un tavolino lì presso, aguzzandosi l'appetito con due sorsate di vermutte e una discussione strategica. Le nostre chiacchiere impedivano a quei due bravi veterani di far muovere i loro battaglioni; impacciavano la strada agli squadroni di cavalleria che essi scagliavano sull'inimico, con tutta la balda fierezza delle loro ricordanze.
A noi, per contro, il passo fu impedito, appena usciti che fummo sulla piazza, da una calca di gente, la quale si stringeva, sghignazzando ed urlando, intorno ad una macchina di forma insolita, che andava saltelloni su d'una carretta, tirata da un uomo; vi prego a crederlo, tirata da un uomo.
In quella che noi, afferrando pel ciuffo l'occasione di fermarci, stavamo a pensare che diamine fosse quel cassone sgangherato, l'uomo si fermò, si tolse la cinghia di sopra il petto, e fece per sedersi su d'uno sgabello che aveva portato tra mani, salutando dapprima, con grandi inchini, una frotta di monelli che gli si eran ficcati d'attorno, ai primi posti.
Le vesti del pover'uomo attestavano il passaggio di un numero sterminato d'inverni, tanto erano gualcite e in più luoghi malamente rattoppate. Il giubbone doveva essere stato di panno nero, ma era tutto una macchia tra il giallo, il verde e il lionato, senz'altra interruzione che quella degli stracci e delle toppe già dette. Un cappello alto di feltro, sebbene pieno di ammaccature e col pelo arruffato e rossiccio, una cravatta nera annodata a mo' di corda intorno a due solini di colore ambiguo, e un occhialino col cerchietto di corno, che gli pendeva dal collo, lo dimostravano un uomo d'assai, una specie di professore di greco, o di poeta estemporaneo in aspettativa. Aveva inoltre i capegli lunghi e rabbuffati come la tempesta, e, a giudicarne così alla grossa dalle rughe del volto, gli si sarebbe dato un cinquant'anni, quantunque fosse anche agevole argomentare che molti di quei solchi li avessero segnati i patimenti di una vita desolata e randagia.
Era bello o brutto? Dimanda alla quale io non saprei rispondere così sui due piedi, se mi venisse fatta dal benigno lettore. I lineamenti di quel volto erano guasti dalle rughe che ho detto, e da quella crosta arsiccia che il sole, la pioggia e gli altri malanni del firmamento appiccicano, in cambio della pelle consueta, sulla faccia dei poveri diavoli, per i quali non sono state inventate le abitazioni, nè i legni di posta, nè le strade ferrate. Cionondimeno, a guardarlo per bene, si notava una certa regolarità di contorni, con un paio d'occhi spaziosi e giustamente infossati. La barba aveva rada, breve ed incolta, e, per farla finita col ritratto, dirò che una bella elegante, di quelle che so io, avrebbe raccapricciato a vederselo tra i piedi, e un cagnolino di buon gusto, come sono in generale tutti i cagnolini da salotto, gli avrebbe abbaiato ai fianchi, e, tra il ribrezzo e la paura, non gli sarebbe parso disdicevole ai suoi natali, nè alle delicate consuetudini del suo muso, addentargli le gambe.
Non dico già questo per dar biasimo alle belle eleganti che so io, e ai cagnolini da salotto. Anche i cani da pagliaio e la gente dozzinale, solo che piglino l'uso delle città e si avvezzino agli splendori della vita, abbaiano dietro alla povertà; raccapricciano alla vista dei cenci, e non vogliono neppur aprir l'uscio di casa, quando i cenci sono per le scale. Questa è legge di equilibrio sociale; laonde, ad un volgo che sta in alto, risponde un volgo che sta sotto, e per contro la nobiltà del sentire, il culto del bello e del buono, il dispregio dei fronzoli e del princisbecco nelle usanze del vivere, si rinvengono in tutti gli ordini dell'umano consorzio.
Alcuni di questi pensieri, che mi vengono ora sotto la penna a farsi tingere d'inchiostro, mi giravano per la testa nel contemplare quel poveretto seduto davanti al suo cassone ambulante e fatto segno agli scherni dell'uditorio piazzesco.
– Largo al maestro! largo al Rossini! – gridavano, con quanto fiato s'avevano in corpo, certi garzoncelli in maniche di camicia, mentre con piglio burlesco facevano stare indietro i loro compagni della prima fila.
– Come c'entra il Rossini? – chiese Tiberino. E spinto dalla sua artistica curiosità, si ficcò dentro la calca, e noi dietro a lui, con aiuto di «la mi scusi» e di gomitate, fino a tanto che ci mettemmo in secondo ordine, per assistere al cominciamento dello spettacolo.
La carretta sosteneva, come dissi, un cassone di forma quadrilunga e irregolare, rivestito di assicelle di pino, fesse in molte parti, e tutte plasmate all'intorno di quella tinta cenerognola che suol darsi alle imposte e agli scurini delle finestre. Il pover uomo, che io pure chiamerò Rossini, sulla fede della moltitudine, lo diceva il suo pianoforte a coda; e di fatto, come l'ebbe aperto da un lato, apparve una sudicia tastiera, corrosa tanto dall'uso da poter raffigurare assai fedelmente una scala del Monte di Pietà.
Su quella tastiera il nostro Rossini pose allora due mani forse pulite un tempo e delicate, ma guaste oramai dalla fatica e dal gelo; poi, sollevando alle nuvole due occhi stralunati, come in atto di aspettare l'ispirazione del biondo Iddio, e componendo le labbra ad un grottesco sorriso, fe' scorrere quelle mani sui tasti, i quali sprigionarono un subisso di stonature, da raggrinzare i nervi di un bue.
Povero Rossini! Mentre egli si lasciava ire a quel suo preludio di arcana dolcezza, gli si facevano intorno le più grandi pazzie, i ragionamenti più beffardi del mondo. Chi si appigliava alla coda del suo cembalo come al capo di una leva, e faceva balzar la tastiera sulla sua testa; chi gli facea ruzzolar la carretta sei palmi discosto sul selciato, tra le risa degli astanti, che davano indietro per non averla a pigliar nelle gambe; chi gli mandava addosso una gragnuola di bucce e torsi di cavolo; chi infine gli faceva scivolar la musica, squadernata a rovescio sul leggìo; e tutte queste innocentissime burle erano accompagnate da risa, fischi, grida e strepiti di ogni maniera.
Ma il povero maestro non perdeva per così poco la tramontana. Le sue dita seguitavano ostinatamente la tastiera, come l'ago calamitato la direzione del polo, e ne facevano balzare suoni discordi e incomposti, ch'egli accompagnava col suo canto, del quale Tiberino, buon intendente di musica, non ebbe modo di indovinare la chiave. Mai cigno d'Eurota, o d'altro fiume classico, cantò più sgraziatamente di lui, e l'uditorio, che non pareva andasse in brodo di succiole, si faceva beffe del suono e del motto.
– Scusino! – disse allora il maestro. – Ho qui un notturno di mia fattura, e se vogliono udirlo…
– Certo! certissimo! la si figuri se non vogliamo udirlo! – gridarono a gara molte voci nella folla.
– Ella suona come una campana; – disse uno degli astanti, facendo un inchino.
– Canta come un uscio sugli arpioni; – soggiunse un altro.
E la gente a ridere e gridargli: – Suoni, maestro, suoni il notturno! – mentre i monelli seguitavano a far viaggiare il cassone.
Il poveretto, senza punto scomporsi e come non accorgendosi di tutte quelle irriverenze, dopo aver ringraziato con un comico accennar del capo tutti i suoi lodatori, diè principio alla cantilena. Noi ne capimmo assai meno di prima: agli altri bastò che avesse incominciato a suonare, perchè i fischi ripigliassero l'accompagnamento, le bucce volassero da capo e le scosse al cembalo diventassero più frequenti e più forti.
Vi fu allora un momento in cui il suonatore mi parve concentrarsi in sè medesimo, quasi per rispondere ad una voce del suo cuore, e la sua faccia abbrustolita fu come trasfigurata da un senso di arcana mestizia. Egli si ristette dal suonare; chiuse il cembalo, si alzò, e, preso con una mano il cappello, e postasi l'altra sul petto, andò attorno a chiedere la buona grazia dell'uditorio.
Ma l'uditorio avea sgomberato in quel frattempo. Doveva essere quella una consuetudine, dappoichè