Santa Cecilia. Barrili Anton Giulio. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Barrili Anton Giulio
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
Год издания: 0
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cavato fuori il suo albo da disegno e abbozzava sbadatamente figure di donna, coperte del peplo argivo; ma nessuno di noi, checchè facesse, perdeva una sillaba dello strano racconto.

      – Rifinito dai piaceri, – proseguì il suonatore con la sua facile e poetica vena, – io mi ritraevo sovente da quei tripudii del senso, nè più mi allettavano i giuochi del Circo, l'oziar delle Terme, o il sorriso delle etère fra le libazioni del simposio. Forse l'animo mio correva con desiderio confuso ai tempi che non erano ancor nati? Non saprei dirvelo; ma il tedio di quella vita, tutta consacrata al culto della materia, mi aveva soverchiato. Pieno di sconforto io mi chiudevo nelle mie case, e mentre dal vano di un loggiato stavo guardando il sole morente, che illuminava ancora di un raggio obliquo il bel golfo di Crissa, il mio pensiero alato correva lontano, oltre i monti dell'Arcadia, in cerca di tal cosa che vedeva mancargli e non sapeva che fosse.

      Così a me stesso mi feci inutile, agli altri molesto. Gli amici, che non mi vedevano più a novellar nelle Terme, nè a correre o a lottare nel Circo, mi davano del pazzo per lo capo. Glicera, la bella etèra che io avevo tante volte incoronata nei conviti con serti di rose, dopo avermi aspettato invano una decade (una decade era l'eternità per una donna di Corinto), fece buon viso alle ventimila dramme d'argento che da lunga pezza le profferiva, come dono votivo per rendersela benigna, il ricco Messàpo, e mi mandò, per mano della sua schiava, una corona di foglie d'elleboro, e una tavoletta con queste parole:

      «A Calisto prega salute Glicera. Le foglie salutari, colte in Antìcira, risanino un cuore che dispregia le rose di Amatunta.»

      Il rimprovero di Glicera non mi punse; nè mi dolse che quelle bianche braccia ministrassero le vivande e quelle labbra di corallo sorridessero al simposii di Messàpo. La mia mestizia cresceva a dismisura: e mi assaliva il fastidio d'ogni cosa che per lo innanzi mi fosse piaciuta.

      Allora Volumnio, duumviro romano… Ma voi forse non sapete, o signori, che i Romani a quei tempi signoreggiavano la Grecia…

      – Ohè, maestro! in qual conto ci tenete voi? – gridai io allora, punto sul vivo. – Sappiamo perfettamente che i Romani soggiogarono il vostro paese nell'anno 146 innanzi la fruttifera incarnazione, e che il console Mummio, impadronitosi di Corinto, le appiccò il fuoco, distruggendola così intieramente, con tutti i capilavori d'arte che l'arricchivano su tutte l'altre città del Peloponneso. Sappiamo altresì che in questo incendio le molte statue di svariati metalli si fusero per modo, che ne venne fuori il celebratissimo metallo di Corinto. Giulio Cesare, poi, risollevò la caduta all'antico splendore, facendola colonia romana, e ricorderete, su questo proposito, la leggenda: Laus Julia Corinthus, come io ricordo che la vostra città fu governata d'allora in poi da due cittadini romani, col nome di duumviri, i quali probabilmente si saranno divise le attribuzioni come da noi, ai tempi nostri, l'intendente, o governatore, ed il sindaco. —

      Al compare non dispiacque punto quella mia raffica di erudizione; chè anzi l'accolse con un sorriso affettuoso, e accennando del capo ad ogni parola, come un maestro esaminatore contento del suo discepolo.

      – Benissimo! – diss'egli, quando ebbi finito. – Io dunque avevo molta dimestichezza col duumviro Volumnio, bel giovane sui trentadue, ottimo soldato e gentil cavaliero. Egli sovente mi chiedeva della mia mestizia e non sapeva capacitarsene. Io avevo un bel dirgli le mie malinconiche pensate; gli era come se parlassi trace od armeno. Patrizio romano qual era, ed amante di tutte le lautezze del vivere, Volumnio non intendeva come si potesse rinunziare ai simposii, ai giuochi, alle belle figlie di Pelope, per altra cosa che non fosse il grave ufficio della milizia o della magistratura; ed era sua sentenza che neppur queste due cose dovessero escludere affatto i sollazzi della vita. E mi citava a questo proposito i suoi primi anni di tirocinio militare in Caledonia, dov'egli, facendo il debito suo, aveva potuto proseguire una ventura amorosa con la più bionda tra le compaesane di Fingal.

      Ma tutti i più bei discorsi di Volumnio facevano mala prova sul tedio dell'anima mia. Laonde, veduto come io fossi proprio ammalato dello spirito, egli mi prese un giorno in disparte, e mi disse: – «Calisto, tra breve io partirò da Corinto, per tornarmene a Roma. Vientene a Roma con me. Io son certo che colà ti passerà dal capo la tristezza e la noia. Vientene a Roma. Sappi che Roma è l'Urbs, la città per eccellenza. Dappertutto, undique orbis terrarum, si vegeta come tanti cavoli! a Roma soltanto si vive.»

      Queste facete esortazioni di Volumnio rispondevano troppo bene al desiderio che mi struggeva di novità, perchè io non cedessi. Raunai quel tanto che mi rimaneva delle mie larghe sostanze, e due mesi dopo, la nave di Volumnio, sulla quale io mi ero imbarcato, giungeva con vento propizio alla foce del Tevere.

      L'animo mio non era presago dei mali che mi attendevano nella città dei sette colli. Mi pareva in quella vece di esser rinato, e il mio petto respirava con gioia le aure di quella Italia, che io salutai dalla prora con la lieta esclamazione di Acate, che è uno dei più felici passi dell'Eneide.

      «O Volumnio, io dicevo, ti sian rese grazie per il tuo invito cortese. Qui mi sento felice, e penso che là, dietro a quei monti ove tu mi accenni esser Roma, io troverò la pace del cuore.»

      E davvero credetti averla trovata, la pace del cuore, quando fui dentro a quella smisurata città, a quel brulichìo di gente d'ogni nazione, tributo del mondo alla potenza di quei fastosi cittadini che passavano per le ampie strade in lettiga, seguiti da un lungo stuolo di clienti e di schiavi. Era quello appunto per Roma un bel tempo, o, se non era, pareva. Alessandro Severo imperava con temperanza e saviezza, e i suoi miti costumi, se facevano desiderare una maggiore fortezza nel governo della cosa pubblica, consolavano tuttavia il popolo delle recenti memorie di Caracalla e di Eliogabalo.

      Allora, per altro, io non avevo tempo nè modo di pensare a cotesto. L'amicizia di Volumnio mi aveva aperto le case di tutti i patrizii, ed io mi ero dato a vivere splendidamente, senza curarmi d'altro che di sempre nuovi piaceri, e senza darmi un pensiero al mondo di ciò che potesse maturarmi il futuro. I parassiti popolavano il mio triclinio; l'Asia mandava a Roma per me le sue bestie feroci e le sue donne incomparabili, e queste io provai feroci del pari, imperocchè, se quelle con le unghie laceravano le carni, queste levavano i pezzi a dirittura. Il mio scrigno sel seppe.

      Ora incominciano le note dolenti. Un dì Volumnio mi condusse alle case dei Cecilii, illustre famiglia, che non la cedeva in nobiltà di sangue che ai Metelli, dei quali era un ramo secondario. Colà vidi Cecilia, la bellissima fanciulla che doveva soggiogarmi, e, sollevando lo spirito mio a desiderii infiniti, precipitarmi nell'abisso. —

      Qui il pazzo si fermò; due lagrime gli scesero giù dalle guance, ed egli, senza pure asciugarle, si stette immobile e senza parole per lunga pezza, in atto di chi pensa e, con l'amara voluttà delle ricordanze, ricostruisce il suo tempo perduto.

      Noi rispettammo il suo silenzio, e taciturni aspettammo ch'egli si facesse a romperlo.

      IV

      Come si riebbe da quella estasi malinconica, e facendosi scorrere una mano sulla fronte, il pover'uomo proseguì:

      – Nata, siccome vi ho detto, di nobilissima gente, cresciuta in mezzo agli agi di una splendida vita, Cecilia era il desiderio dei giovani patrizii di Roma.

      Era pur bella, nella sua serena tranquillità! Biondi capegli le incoronavano la fronte alabastrina, su cui non faceva ruga mondano pensiero; gli occhi nerissimi non scintillavano di voluttà come quelli delle Eleusine, sibbene spiravano un fuoco soave; e talvolta, in mezzo alla lieta comitiva dei parenti e degli amici che le si raccoglieva dintorno sotto le magnifiche arcate dell'atrio domestico, essi illanguidivano, assorti in una contemplazione divina.

      Vi parlo, con parole nuove, di cose antiche, le quali allora io non avrei neppur saputo colorire, perchè non sempre mi era dato d'intenderle. Ricordate che noi assistevamo alla rovina di un vecchio mondo e ai nascimenti di un nuovo. La confusione era nelle lingue, nei riti, nel costume, nei pensieri, e da per tutto. Il greco, il germanico, l'assiro, l'egizio, il gallo e il britanno, si confondevano colà, in quel vasto centro del mondo, e davano temperanze svariate ai colori, forme nuove ai modi del vivere.

      Io paragonavo nel mio cuore Cecilia a Diana, perchè la mia educazione pagana non trovava altro esempio di purezza che quello della casta e solitaria dea delle