– Sei tu greco?
– Sì, sono, – risposi.
– Sei tu che ieri, sulla via Tiburtina, volevi scagliarti sulla lettiga del patrizio Valeriano? Rispondi! —
È fatta, pensai tra me; il prefetto mi vuol morto, e sia; avrò tanto di meno a patire. Questo pensiero mi fece tornare il sangue nelle vene; avevo dinanzi agli occhi un pericolo certo, e non ero uomo da dare indietro. Però risposi con voce ferma e con piglio tranquillo:
– Sono quel desso.
– E perchè? Quali erano i tuoi disegni? – mi chiese Almaco, guardandomi sempre fisso negli occhi.
– Almaco, – risposi io senza indugio, – tu sei potentissimo in Roma e per tutto il suo vasto impero. La mia vita è tua; fammi crocifiggere, ma non mi chiedere, te ne prego, il mio segreto. Io odio quell'uomo… —
Con queste parole io mettevo a repentaglio la vita, e perchè l'animo mi bastasse a dirle, io non avevo alzato gli occhi a guardare il prefetto. Egli non mi rispose nulla, e quel breve momento di silenzio fu per me un secolo di angosciosa aspettazione. Gli orecchi mi fischiavano, il pavimento mi traballava sotto i piedi. Allora, sollevando con disperata audacia lo sguardo fino al mio giudice, che mi pareva lontano lontano, mi avvidi che egli mi stava curiosamente guatando e sorrideva.
Sorrideva? Sì, appunto sorrideva, e voi potete argomentare qual fosse il mio stupore a quella vista. Com'egli ebbe ricomposto il volto al suo primo atteggiamento, ripigliò a parlarmi in tal guisa:
– Sei tu uomo?
– La schiettezza della mia lingua te lo ha dimostrato, clementissimo signore.
– Sta bene; – disse Almaco. – Tu dunque odii Valeriano?
– L'odio, sì, l'odio! —
A queste mie parole il fiero prefetto non rispose, e dopo un'altra pausa, durante la quale si stropicciò parecchie volte la foltissima barba, mulinando tra sè molte cose, mi volse questa impensata domanda:
– Vuoi tu essere centurione?
– Centurione? – soggiunsi io trasognato. – O come, se non ho tuttavia alcun grado nella milizia?
– Greco! – mi rispose egli. – Io posso quel che voglio; lo sai; non dimenticarlo. Vuoi tu essere centurione? —
Io mi strinsi nelle spalle, chinando il capo in segno di assentimento, ed aggiunsi:
– Ma, a qual patto? Tu per fermo, clementissimo signore, hai posto un disegno su me. Fa che lo intenda, e ti obbedirò. —
Almaco si degnò di sorridere da capo, e in cambio di seguitare il discorso in quel modo che io lo avevo condotto con la mia risposta, mi fece un'altra interrogazione.
– Conosci tu la setta de' Galilei?
– No; – risposi, senza intender punto dov'egli andasse a parare. – Ho udito a parlarne da parecchi, i quali mi hanno detto esser questa una setta di uomini che si radunano in luoghi sotterra, mangiando carne di bambini, nelle loro agapi mostruose, e vivendo in comunanza di donne…
– Ti hanno ingannato; – soggiunse il prefetto. – Costoro si raccolgono nelle catacombe, ma non divorano bambini, nè hanno comunanza di donne. Sono in quella vece uomini che scalzano l'autorità di Cesare e della santa religione dei padri nostri. Sono cittadini, sono liberi, schiavi, gladiatori, femminette della plebe, sono gente d'ogni levatura e di ogni ceto, uniti in un solo concetto, nella fede di un simbolo. Anelano alla uguaglianza di tutti gli uomini, per farne sgabello alla loro potenza e promulgar l'impero dell'infima plebe, governata a sua volta da ambiziosi delusi, da astuti impossenti. – Ecco, – seguitò a dire il prefetto, – ecco chi sono costoro, e perchè Roma si è indotta a combatterli. Se eglino si accontentassero a fare quel che tu hai detto, credi tu veramente che francherebbe la spesa di turbare i loro segreti negozi? Non abbiamo noi in Roma altari e sacerdoti per ogni divinità più strana? e non li tolleriamo noi tutti? che più? non diamo ai loro Numi il diritto della cittadinanza? non si sacrifica forse ad Iside come a Giove, ad Anubi come a Marte? La nostra Roma, sappilo, o Greco, è d'animo generoso e clemente. Essa non ama che la sua autorità vada a percuotere i riti innocenti donde tragge il popolo minuto la pace dello spirito; ma essa è terribile contro i propagatori di una fede che scuote dalle fondamenta il grande edifizio romano, contro coloro che congiurano nelle tenebre, che adorano il patibolo, innalzando il disprezzo della legge, la rivolta e il delitto, a segnacolo di un nuovo ordine di cose.
– Per gli Dei! che dici tu mai, clementissimo Almaco? – risposi io, come egli ebbe finito. – Io nulla sapevo di cotesto, e le tue savie parole mi colmano di maraviglia. —
Qui il prefetto mi sorrise ancora e proseguì:
– Costoro, già più volte colpiti dalla vindice mano dell'imperatore, si fanno sempre da capo a congiurare. Io so che una nuova congrega di cristiani, come si chiamano dal nome del loro maestro, si raduna in un ipogèo, poco discosto dalle carceri Mamertine. Tu devi condurre una coorte per farli prigioni. Un mio fidato ti condurrà alla casa di una vedova, che ti aprirà l'adito al sotterraneo. Quella femmina è venduta a me; io stesso ho teso l'agguato da lunga pezza, aspettando che avessero a cadervi; mi hai dunque inteso… —
Io ero trasognato, nè sapevo rinvenire dallo stupore in cui quel discorso di Almaco mi aveva immerso, e stavo chiedendo a me stesso per qual ragione io, povero gregario, fossi improvvisamente chiamato ad opera di tanto rilievo, in quella che io mi pensavo di essere dannato al flagello o ad altra pena più grave. E intanto che la mia mente girava per quel laberinto, senza trovar modo di uscirne, il prefetto spazientito mi gridò:
– Orbene?
– Almaco, – mi affrettai a dire, con quelle parole che prime mi vennero alle labbra, – non credere che io non ti sia grato. Mi pensavo di venire a ricevere un castigo ed ho in quella vece un segno grandissimo della tua benevolenza. Laonde io mi sto tutto dubitoso a cercare qual grazia mi abbia avuto agli occhi tuoi, nè so credere a me stesso, nè intendere. Tu bene avresti potuto commettere la impresa ad altro capitano, senza che ti bisognasse far centurione un gregario, e per giunta un ignoto…
– Prosegui, – diss'egli, – tu sei greco e sottile.
– Sì, ma la mia sottigliezza non giunge più oltre; io non ho il bandolo di questa matassa. —
Almaco, già ve l'ho detto, non era uomo da rispondere pel suo verso alla gente, e usava cominciar sempre lui e condurre a suo modo il discorso.
– Tu dunque andrai con una coorte, – soggiunse egli, – e t'impadronirai di tutta quella marmaglia. Ma forse, anzi senza il forse, ci sarà trambusto; qualcheduno vorrà resistere, ed anco non ribellandosi alcuno, si potrà sparger sangue…
– Oh, non temere! Io adoprerò in ogni cosa conforme ai tuoi comandi.
– No, Greco; tu hai in quella vece a far ciò che la tua ira ti consiglierà.
– La mia ira?
– Per l'appunto. Se tu vedessi colà un tuo giurato nemico…
– Ah! – esclamai allora, credendo di avere indovinato.
– Mi hai dunque inteso? – disse Almaco col suo consueto sorriso.
– Sì, clementissimo signore, ti ho inteso. Valeriano è della setta dei cristiani… assisterà all'agape misteriosa…
– Certamente, – soggiunse Almaco, – egli vi sarà. Tu m'intendi; fatto prigione, egli è pur sempre potente per natali, per autorità di consanguinei, per numero di clienti, e potrà fuggirti di mano, esser graziato dall'imperatore. Ora cotesto non può, non deve accadere.
– A me la cura di ciò! – gridai, ebbro di vendetta. – Dammi gli uomini, ed io mi metto all'impresa. Lo sdegno condurrà il mio braccio, e saprà egli trovare il buon luogo dove infiggere la spada. —
E