Lebenskunst nach Leopardi. Группа авторов. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Группа авторов
Издательство: Bookwire
Серия: Ginestra. Periodikum der Deutschen Leopardi-Gesellschaft
Жанр произведения: Документальная литература
Год издания: 0
isbn: 9783823302780
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e di Porfirio del 18272. Una lettura in chiave positiva di questa operetta, che avrebbe come sbocco ideale la Ginestra3, rappresenta un argomento significativo in favore dell’anti-pessimismo di Leopardi, che nella fase matura del suo pensiero, alla visione tragica della nullità delle cose – risultato ultimo della sua filosofia –, si sforzerebbe di opporre le ragioni dell’«amicizia» richiamata da Plotino, nel suo inno alla vita nelle battute finali del Dialogo, e il motivo della «social catena» degli uomini, invocata dalla «nobil natura» della Ginestra4. Il fiore del deserto diviene così il simbolo di un’umanità che cerca riscatto sulle ceneri prodotte dalla forza annichilente del Vesuvio, volto terribile della Natura che, come aveva già scoperto l’Islandese, mostra di non avere nessuna cura per gli uomini5.

      Rileggendo il Dialogo di Plotino e di Porfirio ci siamo via via convinti della necessità di una maggiore cautela interpretativa e dell’esigenza di adottare un punto di vista problematizzante. In quest’ottica proviamo qui a considerare il Dialogo, interrogandoci su pessimismo e anti-pessimismo in Leopardi, senza dare per scontata alcuna presa di posizione definitiva. In questa sede, dunque, ci proponiamo di prendere in esame il Dialogo – dedicato, com’è noto, al suicidio, questione presente in Leopardi già a partire dal Frammento sul suicidio6 e che, come si evince dai Disegni letterari7, sarebbe stata sviluppata in una progettata operetta intitolata Egesia pisatánato, per poi essere ampiamente trattata in tutto il complesso percorso dello Zibaldone8 – alla luce di interrogativi che, a nostro avviso, non hanno una facile soluzione.

      Nel Dialogo Leopardi mette in forma letteraria la sua riflessione filosofica sul suicidio – quale emerge in particolare nello Zibaldone –, facendo confrontare dialetticamente due punti di vista antitetici: Plotino e Porfirio. Ci chiediamo se questo confronto giunga ad una conclusione e se essa risieda nella parola di Plotino, che formalmente chiude l’operetta, o nel silenzio di Porfirio, che potrebbe indicarci, più che una conclusione, una rinuncia a continuare il discorso. La domanda da cui partiamo è se Leopardi concluda con Plotino o piuttosto non concluda con Porfirio: se, con il primo, risolva in proposta etica (la posizione di Plotino) il suo nichilismo (la posizione di Porfirio)9, aprendo ad una visione anti-pessimistica che si affida all’«amicizia» e poi alla «social catena» degli uomini, nonostante la consapevolezza della nullità delle cose; o se, con il secondo, non riesca a trovare una sintesi tra il punto di vista teoretico (Porfirio) e il punto di vista etico-pratico (Plotino), non sciogliendo la riserva sul suicidio, lasciando aperta la questione se il suicidio sia o meno l’ultimo approdo del suo sistema10. In altri termini, ci domandiamo se Leopardi sia veramente e fino in fondo persuasore di vita – e così diamo conto anche del titolo del nostro contributo e in generale del carattere problematico di questa occasione di riflessione, che può essere soltanto un momento di un’indagine che meriterebbe più ampi sviluppi.

      I due personaggi del Dialogo, non i filosofi Plotino e Porfirio realmente esistiti11, esprimono due tesi opposte: la tesi della vita (Plotino) e la tesi del rifiuto della vita (Porfirio). Sono le «due anime del Leopardi»12 che insieme discorrono sull’arduo problema del suicidio. Un’estrema richiesta di vita (Plotino) si incrocia con un’altrettanto estrema esigenza di rigore e coerenza della ragione (Porfirio), in una tensione drammatica alla ricerca di una sintesi che non si lascia intravedere. Da un lato, Plotino, il persuasore di vita, la voce del sentimento, che riconosce che non siamo soltanto ragione; dall’altro, Porfirio-Egesia, il persuasore di morte, la voce della sola ragione, che non vede altro che la vanità di tutte le cose e che sa che non c’è altra via d’uscita che il suicidio.13 Si confrontano così due contrapposte concezioni della realtà. In Zib. 102–104, tra le «maniere di vedere le cose» distinte da Leopardi, ve n’è una poetica per cui si guarda la realtà a partire dall’«immaginazione» e dal «cuore» e contraddistinta da un «rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo» (la maniera di Plotino), e una filosofica, propria della sola ragione, per cui «le cose non hanno nè spirito nè corpo, ma son tutte vane e senza sostanza» (la maniera di Porfirio). In questo luogo emerge come l’«uso intero della ragione», la fissazione nella «considerazione» e nel «sentimento continuo del nulla veriss[imo] e certiss[imo] delle cose», l’incapacità di distogliere la mente da questo «pensiero», ci paralizzano (questo è lo stato di Porfirio) e come noi riusciamo a vivere e ad agire soltanto in virtù della «distrazione» e della «dimenticanza» e cioè grazie a forze assolutamente contrarie alla ragione (alle quali ricorre Plotino). Senza la possibilità di distrarci e di dimenticare, cioè di illuderci, come vuole la natura – intesa qui in un senso specifico, su cui ritorneremo più avanti – siamo in balìa della «veriss[ima] pazzia» della «ragione pura e senza mescolanza» (pazzia, perché impossibile da sostenere, ma verissima perché la «più ragionevole», anzi la «sola cosa ragionevole», la «sola intera e continua saviezza») e delle sue «operazioni materialiss[ime] e matematiche» (Zib. 107). Si affrontano e si scontrano due visioni del mondo agli antipodi: quella di Plotino che argomenta dal punto di vista del sentimento e quella di Porfirio che argomenta dal punto di vista della fredda e spietata ragione. Se vi sia tra di loro una conciliazione possibile – che spiegherebbe la ragione stessa del dialogare di queste due anime tormentate – è ciò su cui qui ci interroghiamo.

      Il proposito suicida di Porfirio viene annunciato nel preambolo dell’operetta: per Plotino si tratta di un pensiero che non viene da «discorso di mente sana», ma da «indisposizione malinconica» (DPP 542). La discussione avviene tra una mente sana e una mente che si suppone malata. Plotino fa derivare l’intenzione di Porfirio da cause contingenti, senza rendersi conto che i motivi di Porfirio sono puramente teoretici. Il discorso di Plotino si pone su un altro piano rispetto a quello razionale:

      Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore. […]

      […] Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere; e tu non dovresti avere a male di conferirla con persona che ti vuol tanto bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le ragioni: tu sfogherai l’animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; che io merito da te questo: e in ultimo io non sono già per impedirti che tu non facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile. (DPP 543sq.)

      Plotino ricorre alle ragioni dell’amicizia, del cuore, dell’amore che si consolida nel tempo. Il socratico discorrere e lo sfogo degli animi aiuteranno l’amico a trovare la giusta via. Porfirio, dal canto suo, sa che ogni conversare è inutile, perché in gioco sono questioni che meritano «silenzio altissimo» e richiedono che la mente resti «solitaria e ristretta in se medesima più che mai» (DPP 544). La sua «inclinazione» riguarda il «fastidio della vita», il «tedio», il «non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa» (DPP 544sq.). Non soltanto la mente, ma ogni sensazione del corpo è ingombrata da questo fastidio. È una «disposizione» che proviene in qualche modo da un certo «mal essere corporale», ma ciononostante è «ragionevolissima», anzi tale che «tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa» (DPP 545). È lo status proprio della ragione, condizione ragionevolissima, di chi sa che pensare che le cose della vita abbiano valore è inganno e falsità, che «nessuna cosa è più ragionevole che la noia», che i piaceri, i dolori, i timori, le speranze, sono vani, laddove soltanto la noia «la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso» (DPP 545). Ecco la verissima pazzia della ragione, che riconosce che continuare a vivere richiede una logica senza fondamento e cioè che la vita per esser