Queste facete esortazioni di Volumnio rispondevano troppo bene al desiderio che mi struggeva di novità, perchè io non cedessi. Raunai quel tanto che mi rimaneva delle mie larghe sostanze, e due mesi dopo, la nave di Volumnio, sulla quale io mi ero imbarcato, giungeva con vento propizio alla foce del Tevere.
L'animo mio non era presago dei mali che mi attendevano nella città dei sette colli. Mi pareva in quella vece di esser rinato, e il mio petto respirava con gioia le aure di quella Italia, che io salutai dalla prora con la lieta esclamazione di Acate, che è uno dei più felici passi dell'Eneide.
«O Volumnio, io dicevo, ti sian rese grazie per il tuo invito cortese. Qui mi sento felice, e penso che là, dietro a quei monti ove tu mi accenni esser Roma, io troverò la pace del cuore.»
E davvero credetti averla trovata, la pace del cuore, quando fui dentro a quella smisurata città, a quel brulichìo di gente d'ogni nazione, tributo del mondo alla potenza di quei fastosi cittadini che passavano per le ampie strade in lettiga, seguiti da un lungo stuolo di clienti e di schiavi. Era quello appunto per Roma un bel tempo, o, se non era, pareva. Alessandro Severo imperava con temperanza e saviezza, e i suoi miti costumi, se facevano desiderare una maggiore fortezza nel governo della cosa pubblica, consolavano tuttavia il popolo delle recenti memorie di Caracalla e di Eliogabalo.
Allora, per altro, io non avevo tempo nè modo di pensare a cotesto. L'amicizia di Volumnio mi aveva aperto le case di tutti i patrizii, ed io mi ero dato a vivere splendidamente, senza curarmi d'altro che di sempre nuovi piaceri, e senza darmi un pensiero al mondo di ciò che potesse maturarmi il futuro. I parassiti popolavano il mio triclinio; l'Asia mandava a Roma per me le sue bestie feroci e le sue donne incomparabili, e queste io provai feroci del pari, imperocchè, se quelle con le unghie laceravano le carni, queste levavano i pezzi a dirittura. Il mio scrigno sel seppe.
Ora incominciano le note dolenti. Un dì Volumnio mi condusse alle case dei Cecilii, illustre famiglia, che non la cedeva in nobiltà di sangue che ai Metelli, dei quali era un ramo secondario. Colà vidi Cecilia, la bellissima fanciulla che doveva soggiogarmi, e, sollevando lo spirito mio a desiderii infiniti, precipitarmi nell'abisso. —
Qui il pazzo si fermò; due lagrime gli scesero giù dalle guance, ed egli, senza pure asciugarle, si stette immobile e senza parole per lunga pezza, in atto di chi pensa e, con l'amara voluttà delle ricordanze, ricostruisce il suo tempo perduto.
Noi rispettammo il suo silenzio, e taciturni aspettammo ch'egli si facesse a romperlo.
IV.
Come si riebbe da quella estasi malinconica, e facendosi scorrere una mano sulla fronte, il pover'uomo proseguì:
— Nata, siccome vi ho detto, di nobilissima gente, cresciuta in mezzo agli agi di una splendida vita, Cecilia era il desiderio dei giovani patrizii di Roma.
Era pur bella, nella sua serena tranquillità! Biondi capegli le incoronavano la fronte alabastrina, su cui non faceva ruga mondano pensiero; gli occhi nerissimi non scintillavano di voluttà come quelli delle Eleusine, sibbene spiravano un fuoco soave; e talvolta, in mezzo alla lieta comitiva dei parenti e degli amici che le si raccoglieva dintorno sotto le magnifiche arcate dell'atrio domestico, essi illanguidivano, assorti in una contemplazione divina.
Vi parlo, con parole nuove, di cose antiche, le quali allora io non avrei neppur saputo colorire, perchè non sempre mi era dato d'intenderle. Ricordate che noi assistevamo alla rovina di un vecchio mondo e ai nascimenti di un nuovo. La confusione era nelle lingue, nei riti, nel costume, nei pensieri, e da per tutto. Il greco, il germanico, l'assiro, l'egizio, il gallo e il britanno, si confondevano colà, in quel vasto centro del mondo, e davano temperanze svariate ai colori, forme nuove ai modi del vivere.
Io paragonavo nel mio cuore Cecilia a Diana, perchè la mia educazione pagana non trovava altro esempio di purezza che quello della casta e solitaria dea delle selve. Dopo la mia vita militare sul Baltico, avrei potuto paragonarla assai meglio ad una delle belle ed ispirate profetesse dell'isola di Rugene, ad una sacerdotessa di Herta, la invisibile ed ignota Dea della Germania.
Ma anche prima, ed allorchè vidi per la prima volta le mani di Cecilia posarsi sul cembalo e gli occhi suoi cercar l'infinito, ben mi accorsi che Diana cedeva al raffronto; bene intesi allora che una nuova donna era nata, non pure meno materiale di Cerere, ma più pensosa di Minerva e più casta di Diana: ch'ella recava in terra l'immagine della Venere celeste, che i miei concittadini, per consiglio di paurosa riverenza, avevano collocata nelle nubi, molto più in su dell'Olimpo.
E l'amai, l'amai con tutte le potenze dell'anima. Intrinseco del fratel suo e tenuto in gran conto dal padre, io passavo i miei giorni nella sua casa, alternando con lei i suoni del cembalo e le canzoni.
Mi ricambiò ella?... Oh, Cecilia non amava gli uomini se non come fratelli, e l'essere meco, il conversar meco assiduamente, non la turbò, come suole turbare i nostri animi la fiamma dell'amore, come la sua vista turbava l'animo mio. Era la sua vita un'estasi continua, ogni suo sguardo, ogni atto, ancor che lieve, l'adorazione di una cosa ignota agli occhi della mia mente mortale; e non è a dire quanto me ne struggessi in silenzio.
Frattanto il tempo scorreva; le mie dovizie erano ite; Volumnio era volubile come il suo nome e si era allontanato da me. Egli pure aveva amato Cecilia e l'aveva chiesta in maritaggio ai suoi, che avevano accolta con giubilo l'offerta; ma Cecilia aveva ricusato, ed egli, credendomi cagione del rifiuto, me ne voleva un mal di morte. Così, percosso d'ogni parte dai fati, io andavo perdendo anche gli amici e mi trovavo solo nell'ampia Roma; non ero nulla; non potevo esser nulla.
La necessità, la urgenza dei casi miei, mi diede l'ardimento. Fui come la lucerna che, presso a mancare, dà l'ultimo guizzo. Narrai a Cecilia del mio immenso affetto per lei, come l'avessi amata lunga pezza tacendo; come alla perfine più non sapessi frenarmi, e la supplicai pietosamente dell'amor suo.
Sulle prime ella non rispose parola; poi, fervidamente pregata, e alzando, giusta il suo costume, gli occhi al cielo, — «tu non puoi, mi disse ella, o Calisto, essere lo sposo mio. Da gran tempo io m'ho eletto il signore di tutta me stessa, e debbo serbargli la mia fede.»
V.
Il cuore senza amore è come il mondo senza sole.
Immaginate voi questo globo abbandonato dall'astro luminoso che gli riscalda le fonti della vita! Ne avete un breve esempio, un fugace concetto nella semplice durata di un'ecclissi solare. Solo che un'ora que' raggi, interrotti nel loro veloce cammino dalla intromissione di un corpo opaco, non giungano alla terra, impallidisce ogni cosa creata, il vento soffia impetuoso, il freddo e le tenebre v'investono e paiono dirvi che non siete più nulla, dov'essi regnano soli.
Nè dissimilmente si oscurò l'animo mio, quando gli venne meno la speranza dell'amor di Cecilia. Rabbrividii come per gelo improvviso a quella risposta, che io pure avea preveduta e provocata, e dopo una breve pausa, in cui ebbi a sentire tutte le più crudeli trafitture che esacerbassero mai il petto di un uomo:
— Addio, Cecilia — esclamai. — Non ci vedremo mai più.
— Perchè? — mi disse ella, guardandomi con mesta cura nel viso. — Non toccherai più la cetra? Il mio cembalo non ripeterà più le tue melodie?
— No! mi sento morire; il solo vederti mi duole; il rimanerti accanto mi sarebbe un supplizio dell'Erebo. —
Ella chinò il capo e rimase inerte, con le mani prosciolte sulle ginocchia. Io mi alzai e, salutandola con un gesto disperato, varcai rapidamente