— Largo al maestro! largo al Rossini! — gridavano, con quanto fiato s'avevano in corpo, certi garzoncelli in maniche di camicia, mentre con piglio burlesco facevano stare indietro i loro compagni della prima fila.
— Come c'entra il Rossini? — chiese Tiberino. E spinto dalla sua artistica curiosità, si ficcò dentro la calca, e noi dietro a lui, con aiuto di «la mi scusi» e di gomitate, fino a tanto che ci mettemmo in secondo ordine, per assistere al cominciamento dello spettacolo.
La carretta sosteneva, come dissi, un cassone di forma quadrilunga e irregolare, rivestito di assicelle di pino, fesse in molte parti, e tutte plasmate all'intorno di quella tinta cenerognola che suol darsi alle imposte e agli scurini delle finestre. Il pover uomo, che io pure chiamerò Rossini, sulla fede della moltitudine, lo diceva il suo pianoforte a coda; e di fatto, come l'ebbe aperto da un lato, apparve una sudicia tastiera, corrosa tanto dall'uso da poter raffigurare assai fedelmente una scala del Monte di Pietà.
Su quella tastiera il nostro Rossini pose allora due mani forse pulite un tempo e delicate, ma guaste oramai dalla fatica e dal gelo; poi, sollevando alle nuvole due occhi stralunati, come in atto di aspettare l'ispirazione del biondo Iddio, e componendo le labbra ad un grottesco sorriso, fe' scorrere quelle mani sui tasti, i quali sprigionarono un subisso di stonature, da raggrinzare i nervi di un bue.
Povero Rossini! Mentre egli si lasciava ire a quel suo preludio di arcana dolcezza, gli si facevano intorno le più grandi pazzie, i ragionamenti più beffardi del mondo. Chi si appigliava alla coda del suo cembalo come al capo di una leva, e faceva balzar la tastiera sulla sua testa; chi gli facea ruzzolar la carretta sei palmi discosto sul selciato, tra le risa degli astanti, che davano indietro per non averla a pigliar nelle gambe; chi gli mandava addosso una gragnuola di bucce e torsi di cavolo; chi infine gli faceva scivolar la musica, squadernata a rovescio sul leggìo; e tutte queste innocentissime burle erano accompagnate da risa, fischi, grida e strepiti di ogni maniera.
Ma il povero maestro non perdeva per così poco la tramontana. Le sue dita seguitavano ostinatamente la tastiera, come l'ago calamitato la direzione del polo, e ne facevano balzare suoni discordi e incomposti, ch'egli accompagnava col suo canto, del quale Tiberino, buon intendente di musica, non ebbe modo di indovinare la chiave. Mai cigno d'Eurota, o d'altro fiume classico, cantò più sgraziatamente di lui, e l'uditorio, che non pareva andasse in brodo di succiole, si faceva beffe del suono e del motto.
— Scusino! — disse allora il maestro. — Ho qui un notturno di mia fattura, e se vogliono udirlo....
— Certo! certissimo! la si figuri se non vogliamo udirlo! — gridarono a gara molte voci nella folla.
— Ella suona come una campana; — disse uno degli astanti, facendo un inchino.
— Canta come un uscio sugli arpioni; — soggiunse un altro.
E la gente a ridere e gridargli: — Suoni, maestro, suoni il notturno! — mentre i monelli seguitavano a far viaggiare il cassone.
Il poveretto, senza punto scomporsi e come non accorgendosi di tutte quelle irriverenze, dopo aver ringraziato con un comico accennar del capo tutti i suoi lodatori, diè principio alla cantilena. Noi ne capimmo assai meno di prima: agli altri bastò che avesse incominciato a suonare, perchè i fischi ripigliassero l'accompagnamento, le bucce volassero da capo e le scosse al cembalo diventassero più frequenti e più forti.
Vi fu allora un momento in cui il suonatore mi parve concentrarsi in sè medesimo, quasi per rispondere ad una voce del suo cuore, e la sua faccia abbrustolita fu come trasfigurata da un senso di arcana mestizia. Egli si ristette dal suonare; chiuse il cembalo, si alzò, e, preso con una mano il cappello, e postasi l'altra sul petto, andò attorno a chiedere la buona grazia dell'uditorio.
Ma l'uditorio avea sgomberato in quel frattempo. Doveva essere quella una consuetudine, dappoichè tanto solleciti si erano allontanati gli astanti, non sì tosto lo avevano veduto alzarsi e dar di piglio al cappello.
Non erano rimasti intorno al suonatore che dieci o dodici ragazzacci, i quali, come abbonati a tutta la stagione, non davano un soldo, e noi cinque, ma un po' in disparte, come eravamo fino dal cominciar della scena.
Come rimanesse egli allora, lascio che vel pensiate, o lettori. Col cappello in mano e il braccio disteso, la manca rattrappita sul petto, gli occhi sbarrati e la bocca mezzo aperta, smemorato, confuso, stette alcuni secondi in quella postura.
Le due ore, che in quel punto suonavano, lo scossero un poco. Si fe' scorrere la manca lungo lo stomaco, quasi per consolarlo del digiuno a cui lo astringeva; poi andò coll'indice a cercare una lagrima che gli inumidiva le ciglia, si mise il cappello, e voltosi a noi, che fino a quel punto non aveva cercati, ci disse con aria malinconica:
— Andrò a pranzare con santa Cecilia, quest'oggi. —
A qualcheduno di noi, che eravamo rimasti confusi allo scantonare di tutti gli astanti, a qualcheduno di noi, dico, le mani erano già corse nel taschino della sottoveste. Ma Tiberino fu il più pronto di tutti, e cavato fuori uno scudo d'argento si accostò al pover'uomo e glielo ficcò quasi a forza nelle mani, imperocchè l'altro, veduta luccicar la moneta, credette sulle prime fosse una celia, e una celia di tanto più cattivo conio, quanto migliore era quello del metallo.
— Prendete, maestro! — gli disse Tiberino, senza che in quella parola maestro ci fosse ombra di sarcasmo. — Questo vi servirà per i giorni che l'arte vostra non vi darà da campare. Oggi intanto, se non vi duole, venite, non a pranzo (che non siamo ricchi abbastanza), ma a desinare con noi.
— Ben detto! — esclamò Tito. — Bravo Tiberino, qua la mano. E voi, maestro, venite con noi, com'egli vi ha detto. —
Le prime parole che forse da gran pezza il tapinello si sentisse a dire sul sodo, non parve gli entrassero molto. Lo scudo lo aveva in mano, ma a vederlo gli pareva di sognare; e sebbene Tiberino gli avesse ripetuto l'invito, egli rideva come un melenso, alzava e chinava gli occhi, nè poteva aprir bocca. Dio sa che ghiaccio lo scherno degli uomini gli avesse ammonticchiato sul cuore, e che improvviso raggio di sole gli fossero le nostre cortesie!
— Ma.... io.... — balbettò egli finalmente — loro signori sono giovanotti allegri, e vogliono scherzare....
— No, maestro! — ripigliò Tiberino. — Avete parlato di santa Cecilia, della quale sono molto divoto, che io e gli amici miei vi facciamo questa offerta.
— Voi? Oh, ma voi altri non la conoscete, santa Cecilia! — disse con semplice schiettezza il pezzente, a cui le parole di Tiberino e i nostri sorrisi amichevoli incominciavano a squagliare il ghiaccio sul cuore. — Voi non la conoscete, la santa: essa non appare più ad altri, fuor che a me, a me solo! —
È un pazzo? ci chiedemmo noi con gli occhi, guardandoci in viso. E nello stesso linguaggio ci rispondemmo: che importa? ragione di più per venirgli in aiuto. Allora io presi la parola a mia volta.
— Venite ad ogni modo, maestro, e dopo il desinare parleremo di santa Cecilia. Noi la veneriamo senza conoscerla, e udiremo volentieri quello che vi piacerà raccontarne.
— Ma.... — disse egli allora, già quasi vinto dalle nostre istanze — e il mio cembalo?...
— Il vostro cembalo portatelo prima a casa. E voi altri signorini della piazza, che state qui con le mani in tasca, aiutate questo brav'uomo a portare il suo cembalo. —
I dieci o dodici monelli che erano rimasti là intorno a vedere la scena, si guardarono un tratto fra loro; poi due o tre ci risero con molta impertinenza sul muso, diedero una volta sulle calcagna, come tanti soldati al comando del caporale, e scantonarono alla lesta. La più parte seguitarono il buon esempio, e non rimasero che due, dei più piccini, per aiutare il maestro a tirar la carretta, che noi seguivamo da lungi.
Così egli, dopo aver trascinato il suo arnese di viottolo in viottolo fino al suo umile albergo da due soldi al giorno, o, per meglio dire, da due soldi alla notte, se ne venne con noi in una delle più riposte sale di quella beata osteria di Sant'Elena, nel vicolo della Casana, dove ai tempi nostri abbiamo mandato giù tanti bicchieri