Gli studenti della quarta università, che ho detto più sopra, erano come il cemento di tutti quelli elementi svariati, e due chicchere di caffè in un vassoio formavano il centro alla più splendida e sbardellata conversazione d'arte, di politica, di filosofia e d'altro che si potesse immaginare. Era quella una conversazione di nonnulla, di corbellerie e di cose serie ad un tempo. Il Burchiello ci avrebbe potuto ritrovare tutti gli ingredienti del suo famoso sonetto:
Orinali, zaffiri ed ova sode
Nominativi fritti e mappamondi,
tanta era la varietà dei ragionari, il trabalzo dal serio al faceto, dal gramo al buono, dallo studio assegnato alle più matte capestrerie.
Quante cose si impararono colà, che i libri non avrebbero potuto dire, o che sui libri non si sarebbe saputo cercare! Qualche odierno deputato esercitò là dentro, senza pretensione, la sua vena oratoria; qualche scrittore ci trovò l'argomento di un dramma, fischiato più tardi; un futuro ministro vagliava colà le ragioni di un trattato internazionale; io, poveretto, non ci ho pescato nient'altro che gli elementi per questa novella, che verrò fedelmente narrando.
II.
— È pure un noioso mestiere! — esclamò Tiberino, siccome ho già detto, sbadigliando e stiracchiandosi le membra sul divano.
— Qual mestiere? — dimandò Tito, giovinotto dagli occhi vivaci, dalla bruna carnagione e dal piglio di elegante mollezza, che aveva ereditato dall'Egitto natale.
— Quello di non far nulla; — seguitò a dir l'altro. — Sono due ore dacchè stiamo qui raggomitolati, e, se la noia dura, vi prometto io che do un calcio al galateo e mi metto qui sul divano a dormir della grossa.
— Non hai ragione a parlar così, o Tiberino! — dissi io. — Intendo benissimo che queste ore meridiane sono le più fastidiose del mondo, e che si potrebbe toglierle dalla vita dell'uomo....
— E della donna! — interruppe Tiberino.
— Sicuro, e della donna, senza che facesse sconcio la loro mancanza. Ma poichè Dio, nella sua alta sapienza, ha voluto che ci fossero, rispettiamo i suoi arcani disegni e cerchiamo di passarle il meno male ci venga fatto, in questa valle di lagrime.
— Ah! e tu chiami passarle meno male, — gridò Tiberino, — a star qui in bottega da caffè a rinvoltar sigarette di carta, come fa Tito, a contarsi i peli sulle guance, come fa Battista, ad abbozzare sul marmo il naso del tavoleggiante, come fa qui Fabrizio, a guardare in aria, come fai tu, a sbadigliar maledettamente, come fo io? —
A questa tirata di Tiberino tennero bordone, coi loro atteggiamenti diversi, i compagni. Tito lasciò di rinvoltare la carta da sigari, e il latakiè gli restò sospeso in tenui fili tra le dita e la scatola; Battista rimase inerte col pollice e il medio appuntati sulla guancia; Fabrizio depose la matita e alzò il naso dal naso abbozzato; e tutti si volsero a me, per chiedermi che cosa avrei saputo rispondere.
— Io? vi rispondo, — dissi allora, — che non vedo la necessità di rispondere. Vi annoiate? Io non meno di voi. Mettiamoci la via tra le gambe, e andiamocene all'università; sentiremo da qualcheduno che cosa hanno detto i professori, nelle lezioni di quest'oggi. —
Tiberino mi rispose con uno sbadiglio più lungo degli altri. — È gaia la pensata! — soggiunse Fabrizio, a mo' di commento.
— Orbene, — ripigliai, — se non vi talenta, andiamo a fare una passeggiata sui terrapieni, a veder l'erba novellina.
— Sento un soave odor di fieno fresco — mormorò Battista. — Cercane un'altra.
— Eccola qui. Andiamo a passeggio tra Campetto, le Vigne e San Siro, a veder passare le belle signore che vanno attorno per fare incetta di nastri e di occhiate.
— Passa la bella donna e par che dorma — mormorò Tito a sua volta. — Cercane un'altra.
— Orvia, signori, vi contento subito e vo a cercarla. Chi mi vuol bene mi segua. — E così dicendo, mi alzai. Gli altri, per un tratto, volevano menare in lungo lo scherzo, e sapere, prima di alzarsi, che cosa si sarebbe fatto; ma, veduto che io ero già presso l'uscio, ed anche perchè si annoiavano a star seduti, borbottando un pochettino contro la prepotenza, la tirannia, e simiglianti, si alzarono anch'essi.
Così, senza por tempo in mezzo, tutti e cinque ce ne andammo via dal Gran Corso, con molta soddisfazione di due colonnelli a riposo, i quali stavano ad un tavolino lì presso, aguzzandosi l'appetito con due sorsate di vermutte e una discussione strategica. Le nostre chiacchiere impedivano a quei due bravi veterani di far muovere i loro battaglioni; impacciavano la strada agli squadroni di cavalleria che essi scagliavano sull'inimico, con tutta la balda fierezza delle loro ricordanze.
A noi, per contro, il passo fu impedito, appena usciti che fummo sulla piazza, da una calca di gente, la quale si stringeva, sghignazzando ed urlando, intorno ad una macchina di forma insolita, che andava saltelloni su d'una carretta, tirata da un uomo; vi prego a crederlo, tirata da un uomo.
In quella che noi, afferrando pel ciuffo l'occasione di fermarci, stavamo a pensare che diamine fosse quel cassone sgangherato, l'uomo si fermò, si tolse la cinghia di sopra il petto, e fece per sedersi su d'uno sgabello che aveva portato tra mani, salutando dapprima, con grandi inchini, una frotta di monelli che gli si eran ficcati d'attorno, ai primi posti.
Le vesti del pover'uomo attestavano il passaggio di un numero sterminato d'inverni, tanto erano gualcite e in più luoghi malamente rattoppate. Il giubbone doveva essere stato di panno nero, ma era tutto una macchia tra il giallo, il verde e il lionato, senz'altra interruzione che quella degli stracci e delle toppe già dette. Un cappello alto di feltro, sebbene pieno di ammaccature e col pelo arruffato e rossiccio, una cravatta nera annodata a mo' di corda intorno a due solini di colore ambiguo, e un occhialino col cerchietto di corno, che gli pendeva dal collo, lo dimostravano un uomo d'assai, una specie di professore di greco, o di poeta estemporaneo in aspettativa. Aveva inoltre i capegli lunghi e rabbuffati come la tempesta, e, a giudicarne così alla grossa dalle rughe del volto, gli si sarebbe dato un cinquant'anni, quantunque fosse anche agevole argomentare che molti di quei solchi li avessero segnati i patimenti di una vita desolata e randagia.
Era bello o brutto? Dimanda alla quale io non saprei rispondere così sui due piedi, se mi venisse fatta dal benigno lettore. I lineamenti di quel volto erano guasti dalle rughe che ho detto, e da quella crosta arsiccia che il sole, la pioggia e gli altri malanni del firmamento appiccicano, in cambio della pelle consueta, sulla faccia dei poveri diavoli, per i quali non sono state inventate le abitazioni, nè i legni di posta, nè le strade ferrate. Cionondimeno, a guardarlo per bene, si notava una certa regolarità di contorni, con un paio d'occhi spaziosi e giustamente infossati. La barba aveva rada, breve ed incolta, e, per farla finita col ritratto, dirò che una bella elegante, di quelle che so io, avrebbe raccapricciato a vederselo tra i piedi, e un cagnolino di buon gusto, come sono in generale tutti i cagnolini da salotto, gli avrebbe abbaiato ai fianchi, e, tra il ribrezzo e la paura, non gli sarebbe parso disdicevole ai suoi natali, nè alle delicate consuetudini del suo muso, addentargli le gambe.
Non dico già questo per dar biasimo alle belle eleganti che so io, e ai cagnolini da salotto. Anche i cani da pagliaio e la gente dozzinale, solo che piglino l'uso delle città e si avvezzino agli splendori della vita, abbaiano dietro alla povertà; raccapricciano alla vista dei cenci, e non vogliono neppur aprir l'uscio di casa, quando i cenci sono per le scale. Questa è legge di equilibrio sociale; laonde, ad un volgo che sta in alto, risponde un volgo che sta sotto, e per contro la nobiltà del sentire, il culto del bello e del buono, il dispregio dei fronzoli e del princisbecco nelle usanze del vivere, si rinvengono in tutti gli ordini dell'umano consorzio.
Alcuni di questi pensieri, che mi vengono ora sotto la penna a farsi tingere d'inchiostro, mi giravano