Il porto è qui: speme e fortuna addio;
Già m’ingannaste, or fate ad altri il gioco.—
Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso, perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e tracannò il vino d’un fiato.
Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di confortare con nuove ragioni a bocca l’invito che recava per iscritto. Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui. La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela confermava il giudizio di Fior d’oro.
—Non vi piace la mia risoluzione?—diss’egli.
—Non dico questo, nè lo penso;—rispose la contessa.—Ma riconosco che ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci torna meglio.
—Oh, per questo, vedrai che lo potrò;—ribattè egli animandosi.—Non sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo piuttosto ch’egli tratta da re. Quando un re scrive “vi vedrò volentieri„, il cortigiano accorre senz’altro. Io non sono un cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare. Infine, che cos’è che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo; difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il mio scoglio, e ci fo il mestiere dell’ostrica. Quando mai si è preteso che l’ostrica lasciasse di far l’ostrica, per fare il pesce spada?—
Gli pareva d’aver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso e rizzarono gli orecchi, brontolando verso l’uscio:
—Che c’è?—disse il Fiesco.—Hanno sentito qualche cosa d’insolito?
—Rumore nel cortile;—rispose Polidamante.—Sembra uno scalpitìo di cavalli.
—Visite a quest’ora?—ripigliò messer Bartolomeo.—Vedrete che sarà Filippino.
—Ma che!—disse allora Madonna Bianchinetta.—Sono appena tre giorni che l’abbiamo veduto.
—E tre giorni sono qualche volta un secolo;—ribattè egli ostinato.—Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere.—
Comparve indi a poco sull’ingresso della cantinata un famiglio, che tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:
—Magnifico signore, è qui messer Filippino.
—Ah, Filippino!... Ma se lo dicevo io!... Questo qua veramente mi ha preso a proteggere.—
Fior d’oro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.
—Già,... ecco....—balbettò egli allora.—Volevo dire che m’ha preso a voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge. Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per tanta bontà.—
Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer Filippino sull’uscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e d’un bel biondo di stoppa, come la natura benigna ne dispensa qualche volta alla umanità bisognosa.
Frate Alessandro e don Garcìa, fatta riverenza alle dame, erano spulezzati al primo annunzio della visita illustre. Li avrebbe seguiti volentieri Giovanni Passano, ma non n’ebbe il tempo. Del resto, arrivato quel giorno come un messaggero di Gian Aloise, egli era anche in quella casa un parente. Non appariva dunque un intruso; non doveva riuscire importuno, se anche i due Fieschi avessero a parlare di cose per le quali era venuto alla Gioiosa Guardia egli stesso.
—Siete dunque voi, Filippino?—gridò il capitano Fiesco, dischiudendogli quasi le braccia, ma fermandosi a mezz’aria per istendergli le mani.—A quest’ora ci capitate? Di passaggio, m’immagino, e vorrete pernottare da noi?
—No, non di passaggio, vengo appunto per voi;—rispose Filippino, arrossendo un poco.—Del resto, è sempre piacevole capitare a Gioiosa Guardia, che è tanto ospitale e benevola. Sapete bene che quante volte ho da passare di qua, non mi lascio sfuggir l’occasione di riverir le dame e di stringer la mano a Voi. Questa volta sono ambasciatore, o messaggero, o cavallante, come vorrete chiamarmi. Ecco una lettera di Gian Aloise.
—Dell’eccelso Gian Aloise?—esclamò il capitano Fiesco.—La seconda in un giorno!
—Infatti, sì;—rispose Filippino.—Egli mi ha detto della commissione che aveva data al nostro Giovanni Passano. Ma nella lettera a lui consegnata aveva dimenticato un punto di capitale importanza. Allora egli ha chiesto a me se mi sarei sentito....
—Di montare a cavallo, non è vero?—interruppe messer Bartolomeo.—E di galoppare a Gioiosa Guardia, dove gli amici son sempre così lieti di vedervi? Ma galoppando così, Voi avrete anche dimenticato di cenare; e se permettete, s’imbandirà subito per Voi. Polidamante!...
—No, vi prego, non fate nulla di nulla. Sapevo di non giungere in tempo per la cena, ed ho mangiato un boccone dall’oste del Rupinaro. Piuttosto,—soggiunse Filippino con grazia,—l’ho ancora qua nella gola, e gradirò che mi diate da bere.
—Allora, faccia Polidamante l’ufficio suo, e Voi siate contento a modo vostro. All’ospite non bisogna dar noia, per desiderio di mettergli la casa sulle spalle;—conchiuse saviamente messer Bartolomeo.—Ma intanto,—seguitò, volgendosi al Passano,—eccoti qui un oste del Rupinaro, che tu hai saltato nella tua rassegna stradale.
—Non l’ho saltato;—rispose il Passano.—Ho solamente risposto di sì a tutti i nomi che Voi dicevate.
—E perchè non ho detto quello, tu l’hai taciuto, manigoldo? Ma leggiamo questa lettera, che dovrebb’essere la seconda ai Corinzii.—
Mentre il capitano Fiesco parlava così, disponendosi ad aprire la lettera, messer Filippino faceva riverenza alle dame. Fior d’oro, contro l’usanza delle nuore, stava molto ai panni della suocera; e messer Filippino, che aveva una voglia spasimata di bisbigliare qualche cosa molto sottile e molto profonda a madonna Juana, dovette contentarsi di dirne molte assai comuni e leggiere a madonna Bianchinetta, parlando della salute, del tempo, della strada percorsa, e di simili altre bazzecole. Ma anche a ragionare d’inezie c’è il modo di andar nel sublime, o almeno di rasentarlo, con un buon lavoro d’occhiate compassionevoli, tremiti di voce e soavi inflessioni d’accento. Ora in quest’arte Filippino era passato maestro.
Gli occhi di Fior d’oro, badando poco agli atti di Filippino, andavano spesso al marito, spiandone i moti e ricercandone l’animo; cosa facilissima, perchè egli non usava nascondersi mai. Così lo vide batter