Aveva, sin dalla sera innanzi, una spina fitta nel cuore.
Non gli era sembrato che sua figlia lo avesse accolto con sufficiente espansione: sopra tutto era inquieto di averla ritrovata così cagionevole di salute, così pensosa… così abbattuta.
Aprì la finestra del suo salotto e mise il piede in una ampia terrazza, che dava sulle serre dello splendido giardino.
In un gruppo d'alberi vide il riflesso di un lume.
Alzò il capo: e s'accorse che il lume veniva dalle finestre della camera d'Enrica.
Scorse un'ombra, poi un'altr'ombra di donna disegnarsi sugli arbusti illuminati.
Enrica e Cristina vegliavano.
—Come mai,—pensò il duca,—a quest'ora ella, tanto sofferente, non si è coricata?
Il duca ebbe l'idea di salire da sua figlia.
Ma a un tratto le imposte delle finestre della camera furono chiuse.
II.
Chi avesse in quel punto visto Enrica si sarebbe sbigottito.
I capelli disciolti le ricadevano sin quasi al ginocchio, le vesti in disordine; la fisonomia piena di terrore, le labbra schiumanti, le guancie, di pallidissime, divenute livide, le occhiaie infossate, gli occhi iniettati di sangue.
Di tratto in tratto le sfuggiva un gesto di collera.
Quando furono chiuse le imposte, ella sedette, il gomito nudo appoggiato sul velluto celeste di una piccola scrivania d'ebano.
—Dunque ti ha parlato?—disse con angoscia suprema, guardando negli occhi Cristina che stava ritta innanzi a lei.
La cameriera rispose di sì con un cenno.
—Ed è risoluto vedermi ad ogni modo?…
—Ad ogni modo!—replicò Cristina.
Tutt'e due parlavano sotto voce, agitate, come in preda a un grande spavento.
—E quando e tornato?…
—Stamani….
—Il suo bastimento non faceva rotta per le Indie?
—Il bastimento si è incendiato in mezzo a una tempesta….. Egli ha salvato, dopo morto il comandante, alcuni dell'equipaggio: non mi ha detto in particolare ciò che ha fatto, ma mi ha mostrato, sul suo uniforme, i galloni. È già graduato….
—Ha, dunque, mantenuto la sua promessa!…
—E domani sarà qui!—osservò Cristina.
—Ecco ciò che mi dispera…. Io non avrò mai il coraggio di confessar tutto a mio padre…..
—Il giovinotto,—esclamò a un tratto risoluta e cupa Cristina,—non deve saper nulla della creatura….
—Costei non sa,—pensava Enrica, infiggendosi le ugne nelle carni, che le spicciavano sangue,—ch'io già sono la sposa… la sposa del figlio di Francesco Jannacone!…
Offriamo qualche spiegazione al lettore.
Come abbiam detto, Enrica aveva sempre goduto d'una grande libertà.
Era cresciuta forte, prosperosa, in mezzo ai campi; di sangue ardente, dispotica e sensuale, non tollerando opposizione a' suoi capricci, e nessuno pensava a stornarli, anzi tutti vi si piegavano.
La compagnia della perfida Cristina aveva fatto il resto.
Il duca aveva un quattrocento persone e più nella sua famiglia colonica: Enrica andava a ogni ora per i vasti possessi.
La ragazza entrava nelle case, all'improvviso; appariva non desiderata, maligna, ne' luoghi più remoti ove gl'innamorati si davano convegno; i discorsi e gli esempi di Cristina, che essa avea trovato un giorno senza vesti in una delle stanze più sfarzose del castello, con la guardia del parco; un vero gigante, ammirato da tutte le belle de' dintorni; i trastulli de' garzoni, delle forosette, che avea spesso sorpresi, le intimità, sulle quali aveva voluto mettere l'occhio nelle case, ne avevano infiammato l'immaginazione, e l'avevano resa precocemente desiderosa di piacere.
Essa era già sviluppata di forme; il seno mostrava appetitosi turgori: il fianco rilevato, la gamba straordinariamente massiccia, che tutti vedevano, poichè passeggiava allora per la campagna in guarnellino corto: le braccia erano rotonde, bianche, marmoree.
Un bellissimo giovinetto, biondo, robusto, di aspetto gentile, figlio di un contadino del duca, veniva spesso al castello per servigi, o a recar doni.
Era alto della persona, di larghe spalle, occhi vivi, naso aquilino, e mirabile nella proporzione delle sue forme. Aveva poi una certa grazia innata: spirava la tranquillità, la gioia, la forza.
Il collo nudo, il petto nudo, le gambe quasi nude, era bello a vedersi come una statua: come un Apollo o un Antinoo.
Cristina, non sappiamo con quale pretesto, lo aveva tratto nelle stanze della padrona, mentre essa un giorno correva i campi, e s'era trattenuta con lui.
Più tardi Roberto Jannacone riusciva a confabulare con Enrica. Essa incominciò a vederlo volentieri, a scherzarci, a incrudelire verso di lui: il suo modo di dimostrare affetto agli esseri che prediligeva.
Talvolta, selvaggia com'era, gli dava uno schiaffo sonoro; con una frustata gli aveva fatto un grosso sberleffo sul viso: un giorno gli aveva fatto di toccare un ferro, che ella aveva tenuto al fuoco lungo tempo, e Roberto ne fu per varii giorni ammalato.
Egli sopportava; aveva un suo disegno: quella ragazza appariscente gli metteva addosso ben altro fuoco che i ferri arroventati.
Cristina non vedeva di mal occhio che la padrona si dilettasse della compagnia di Jannacone, per farlo disperare, tormentarlo in ogni modo.
Ella aveva così più il destro di veder il bel giovane, che, sottile politico, sebben altri avesse potuto averlo in concetto di rozzo, la secondava nel suo talento, e lasciava soddisfatta quella donna provetta, sapiente in certe arti.
Cristina sapeva che Enrica, orgogliosa, fastosa, disprezzava il giovane.
Enrica aveva preso con esso una insolita familiarità. Aveva inventato per lui una nuova maniera di torture.
Si faceva or vedere da Roberto negli atteggiamenti più provocanti; se gli mostrava discinta, le sue forme robuste in parte scoperte; bene inteso, sempre quando v'erano persone vicino, che potessero accorrere in suo aiuto; gli mostrava di trattarlo come un bruto, come un uomo senza considerazione.
L'altro s'invasava di tutta quella bellezza; accanto a Enrica si sentiva in un'atmosfera di grandi ardori.
Pensava, nella sua astuzia di contadino, che un giorno la sua forza avrebbe vittoria: e sarebbe si grato un trionfo, dopo tanti oltraggi, tante ripulse, tante ignominie.
Il giorno venne.
Enrica correva sola, una domenica, poco innanzi il crepuscolo, fra le alte erbe…. Non s'era accorta che qualcuno la seguiva da un pezzo. Due braccia di ferro l'avvinghiarono. Vi fu una lotta disperata. Enrica si difendeva con morsi, coi pugni, con le unghie, con uno stile, che aveva fra i capelli, infliggendo ferite nel braccio di Jannacone, che spargeva sangue. Ma costui sapeva quel che voleva, e lo voleva. Teneva una mano sulle labbra di Enrica e quasi la soffocava perchè non gridasse: fiero, risoluto, cercava di vincere ogni ostacolo.
Uscivano a sera di là.
Nel separarsi, Enrica, si gettava al collo del giovane, e gli dava due baci sulla fronte.
Quella passione ruggì per oltre un mese.
Enrica era delirante.
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