— Voglia sopportarla due minuti ancora. L'aprirà quando saremo al Museo; — soggiunse Filippo.
Andavano infatti a visitare il museo Correr; museo municipale, così chiamato dal nome del suo fondatore, che alla città lo aveva generosamente lasciato, ma via via cresciuto ed arricchito dalle liberalità di altri nobili veneziani. C'era un po' di tutto, là dentro: tele, marmi, bronzi, maioliche e porcellane, vetri di Murano anteriori al Mille, musaici, smalti, nielli, gemme incise ed avorii intagliati, monili d'oro e d'argento; a farla breve, tanto da tesserci per via d'esempi la storia di tutte le arti e di tutte le industrie veneziane.
Margherita era nel suo elemento: curiosa indagatrice, pronta a ritenere le cose nuove e a paragonarle con altre già viste, aveva là dentro di che saziare l'avidità molteplice del suo intelletto, passando così facilmente da un genere all'altro. I marmi, a dir vero, la lasciarono un po' fredda, essendo piuttosto scarsi di numero e [pg!76] di pregio. Diede tuttavia un pensiero a Marco Vipsanio Agrippa, se proprio era lui quel colosso venuto al Correr dalle case dei Grimani, come ai Grimani dagli scavi a tergo del Panteon di Roma. Ammirò poi come saggio di precoce valentìa, due canestri di frutta, che Antonio Canova quattordicenne aveva scolpiti pel nobile Giovanni Falier. Tra i dipinti la colpì il ritratto di Cesare Borgia, opera di Leonardo da Vinci; una figura storica che farà sempre pensare, come e quanto farà sempre fremere. Ma più grande maraviglia le cagionò un gran disegno a matita nera, di Paolo Veronese, rappresentante il convito del Nazareno in casa di Simeone, con la Maddalena pentita ai piedi del Redentore, e Giuda che balza dalla seggiola in atto di rimproverare alla donna quell'eccesso di pietà, o quell'abuso di unguento. Era un bozzetto, e Margherita ricordò di aver contemplato il quadro a Parigi.
— Certo; — disse Filippo. — Paolo Veronese lo aveva dipinto qui, pel refettorio dei frati Serviti. Ma poi il Senato lo mandò in presente a Luigi XIV; perciò Ella ha veduto quel quadro nel Louvre.
— E qui, — ripigliò Margherita, — vediamo il capolavoro al suo nascere. In questo modo comprendiamo meglio il quadro. Tra l'idea e l'esecuzione c'è quasi sempre un grande intervallo, tutto seminato d'incertezze, di pentimenti, di aggiunte, di variazioni, per cui la composizione finale non corrisponde più all'idea primitiva. Qui invece è bello veder l'idea già matura, fin dal suo primo apparire; e ci guadagna il pittore, lasciandoci intendere la natura del suo genio. Non crede, signor conte, che fosse un genio, il Veronese?
[pg!77] — Lo credo; — rispose Filippo, mettendosi volentieri all'unisono con la bella ragionatrice; — se non per la idealità, certo per la varietà de' suoi tipi. È un pittore che ha composto mirabilmente le scene più vaste e più complesse, facendo correre molt'aria e molta luce intorno ad un gran numero di figure, tutte diversamente atteggiate, e senz'ombra di sforzo. Ricorda, signorina, le Nozze di Cana, che maraviglia? Quelle centinaia di personaggi d'ogni razza e d'ogni provenienza, si occupano ben poco del convitato principale e del miracolo ch'egli sarà costretto a fare per loro soddisfazione; ma che importa? La nota dominante è l'allegria della festa: l'allegria basterà dunque a collegare, a stringere in una tante espressioni svariate; e finalmente la vita umana non sarà stata mai rappresentata così vera, così evidente, nella pienezza delle sue forze, nella molteplicità delle sue espansioni. Il buon Paolo Caliari ha sentito il grande meglio d'ogni altro. Ma anche nel piccolo può rivelarsi l'ingegno. Veda i quadri del Longhi. —
La signorina Margherita fu ben contenta di vederli, e di esaminarli attentamente, provandone alla bella prima un gusto matto. Pietro Longhi, un pittore del Settecento, conosciuto quasi esclusivamente a Venezia, perchè ivi soltanto si poteva studiarlo, figurava egregiamente nel museo Correr con quattordici tele. Veneziano nell'anima, originale nella scelta dei soggetti, bizzarro nella composizione, arguto nei raccostamene impensati dei tipi, gentile nel tocco, meritava davvero di trattener l'attenzione. Come il famoso Canaletto per le sue architetture e per le vedute dei punti più pittoreschi di Venezia, il Longhi [pg!78] suo contemporaneo, in graziose scene di mascherate, di conversazioni signorili e di adunate popolari, aveva espressa la vita della sua città in tutti gli aspetti. I nobili del tempo si contendevano quelle sue tele, poche delle quali erano più alte d'un metro e più larghe di due, mentre il maggior numero andavano poco oltre la metà delle accennate misure, e talune scendevano anche al disotto. Ma in così piccolo spazio quanta evidenza di rappresentazione, quanta potenza di vita! E non senza una leggera intenzione di satira; quale almeno si poteva intendere ai giorni suoi, ch'erano pur quelli del Goldoni e del Parini, e quanta se ne poteva tollerare nella società un po' frolla del Settecento, ma fine, delicata, tutta garbo e misura.
Tra i quadri del Longhi attirava subito lo sguardo una viva rappresentazione del Ridotto, con quella sala piena di gente in maschera, tutta intenta ai suoi sollazzi, ai suoi piccoli intrighi e ripeschi. La galanteria dominava; ma la passione del giuoco non poteva mancare. E appunto da un lato si vedeva la tavola del faraone, il gran giuoco del secolo, che accomunava intorno ad un tappeto verde stimati patrizii e avventurieri d'ogni risma, provati gentiluomini e furfanti di tre cotte, bellamente aiutando a questa miscela l'uso della bautta e della maschera. La bautta, si sa, era un mantello con rocchetto e cappuccio, abbastanza somigliante al domino delle mascherate moderne. La maschera, poi, era di due forme; maschera propriamente detta, intiera, o tale in apparenza per la giunta del pizzo nero che scendeva a coprire la bocca ed il mento; mezza maschera senz'altro, [pg!79] detta anche morettina, e ordinariamente portata dal sesso gentile, che non voleva nascondere tutte in una volta le grazie allettatrici del viso.
Nella tela del Longhi, un nobile a faccia scoperta, seduto dietro la tavola, teneva il banco; davanti a lui un cavaliere mascherato puntava. Nel banchiere, ricorrendo col pensiero alle memorie del tempo, era lecito di raffigurare il conte Canani, famoso tenitore di giuochi, e nel puntatore un cavaliere d'industria non meno famoso di lui, e per troppe altre ragioni, mostro di mariolerìa, d'impudenza e d'ingegno. Ci pensò per l'appunto l'Aldini, mentre osservava con la signorina Cantelli il dipinto; ma tenne prudentemente il suo raffronto per sè, non parendogli che certi nomi dovessero suonare ai casti orecchi di lei.
Le fece piuttosto notare nel fondo del quadro, a sinistra, e dietro alla tavola da giuoco, una di quelle aperture luminose donde sapeva ricavare tanti effetti il Teniers, e là in quella apertura d'uscio la veduta di una bottega da caffè, con molte maschere affollate al banco del caffettiere.
Poi la condusse davanti ad un altro quadro, dove alla vita del ridotto succedeva la vita del monastero; allegrissima anche questa, nel parlatorio elegante, dove le monache e le educande, sporgendo coi visetti maliziosi dalla grata, ricevevano i complimenti d'una comitiva di cavalieri e di dame. Non era fitta, la grata; al bisogno poteva anche aprirsi, facendo di due stanze una sola. Intanto la conversazione appariva molto animata; e preludiava anche a un altro divertimento, poichè lì presso [pg!80] ei vedeva rizzato, e pronto a cominciar lo spettacolo, un casotto di burattini.
Altro quadro più in là, raffigurante una piazza; e sulla piazza un palco da ciarlatano, donde un vecchio Dulcamara esaltava la magica virtù di certe boccettine, che vendeva alle belle ragazze; l'elisir d'amore, senza dubbio, del quale pareva invogliata anche una gran dama, venuta in piazza con la morettina sul viso, facendosi sostenere lo strascico dall'immancabile cavalier servente in bautta. La bautta era in voga; non disdiceva neanche nei più alti luoghi, nei più solenni ricevimenti. Ne faceva testimonianza un terzo quadro, dov'era rappresentato un doge, niente di meno, il doge Pietro Grimani, seduto in trono e circondato da quattro consiglieri, in atto di ricevere un senatore, che gli presentava una dama e due gentiluomini, come lei mascherati. Benedetto doge Grimani, a cui le cure dello Stato, nobilmente sostenute dal 1741 al 1752, concedevano qualche onesto sollievo!
Il dipinto che lo raffigurava era certamente stato fatto per sua commissione. Dogi e senatori, come tutti i patrizii veneziani, gradivano di vedersi effigiati nei quadretti del Longhi. Era un modo di tramandare le proprie sembianze ai posteri, senza la solennità del gran quadro, e col vantaggio di essere ricordati in mezzo alle loro famiglie. Così in un'altra tela del gaio pittore si vedeva un parrucchiere tutto premuroso acconciare il capo ad una gran dama; la quale, seduta allo specchio, sorrideva ad un bambino, ancora in braccio della paffuta nutrice. Frivolezza e sentimento materno sapevano stare in buona armonia, sotto la protezione d'un ottimo capo di famiglia, [pg!81] il cui ritratto pendeva appunto dalla