Hic canit errantem lunam, solisque labores;
Unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes
Arcturum, pluviasque Hyadas, geminosque Triones;
Quid tantum oceano properent se tingere soles
Hiberni, vel quae tardi mora noctibus obstet.
(Æn. I.)
E nell'Egloga IV tutto questo ed altro apprendeva un bravo pastore a' fanciulli stupefatti:
.... uti magnum per inane coacta
Semina terrarumque, animaeque marisque fuissent.
Et liquidi simul ignis: ut his exordia primis
Omnia, et ipse tener mundi concreverit orbis.
E via di questo passo aggruppando e risolvendo alla lesta le più importanti questioni sull'ordine cosmico, ognuna delle quali parrebbe oggi troppo grave ad una intera accademia di scienziati. — Se corriamo di fatti col pensiero ai tempi nostri, vediamo che di tante affermazioni la scienza attuale non una forse osa porre con vera certezza, malgrado il perseverante lavoro di tanti secoli. Sconfortante paragone! È naturale che si domandi perchè mai il pensiero umano invece di progredire alla conquista della certezza in modo proporzionato a così prosperi cominciamenti, abbia declinato per modo, che tutto il nostro sapere moderno quasi sempre non ci consente che ipotesi ove gli antichi professavano dommi. E sì che d'altra parte il progresso è innegabile: maestri a maestri, scuole a scuole si sono succeduti, e tutti attraversando di loro fugace dominazione il teatro della storia del pensiero, hanno versato a piene mani nel tesoro del sapere comune studi e sistemi, cosicchè credereste oggi i materiali alla scienza sovrabbondare. Ma intanto questa scienza compiuta non si è fatta, e ci persuadiamo ogni dì più che ne siamo ben lontani ancora. Dove gli antichi predicavano netto l'aforisma, noi timidamente poniamo l'ipotesi. Direste la certezza allontanarsi dalla mente umana, quanto più la dottrina s'approssima a lei.
Tutto ciò vuol dire che insieme col maturarsi degli ingegni e al crescere della dottrina, s'è andato svolgendo e ha preso dominio nello spirito umano una facoltà, che anticamente dormiva nel suo seno quasi allo stato di pura potenza. Questa è la facoltà critica, che via via nel corso dei secoli ha preso il luogo di quella fidente spontaneità, di quelle intuizioni potenti e quasi divinatrici, onde vigoreggiava il pensiero antico. — Il criticismo (tanto bistrattato da alcuni) non consente più è vero allo spirito umano, que' subiti slanci di speculazione, o la tranquillità sistematica d'una volta; ma contentiamoci che in cambio ci salva dal peggiore de' mali, vo' dire lo scetticismo. Badate che per tale io credo doversi solo intendere quell'abito negativo e sofistico del pensiero col quale esso corre studiosamente in cerca della contraddizione e di essa s'appaga e perde la fede nella scienza, fino a negarne la possibilità. Or bene, o che io m'inganno a partito, o il pensiero moderno non soffre di questo male: egli va circospetto, non isconfortato, commisura scrupolosamente la certezza alla evidenza e non teme di sospendere a lungo gli assensi, che vuol solo prestare al vero veduto; ma ha fede nella scienza e nel suo avvenire. Il criticismo insomma anzichè stare, a detta di Gioberti, in comunella collo scetticismo, costituisce, nell'ordine scientifico, la sua negazione più razionale ed il più valido suo preservativo. Infatti gli antichi, che non conobbero criticismo vero, patirono di tratto in tratto i più fieri assalti dello scetticismo. E naturalmente; poichè alla baldanza del troppo affermare la mente umana era tratta a contrapporre, per impeto di natural reazione, la smania del negare e il disgusto d'ogni speculazione e lo sconforto profondo, che tien dietro alle illusioni prosuntuose. Nessuno meraviglierà quindi di vedere alle scuole de' Pittagorici, degli Eleati e dei Joni, succedere l'epoca dei Sofisti. La Sofistica fu una forma di scetticismo col quale, omai stanco, il pensiero greco si vendicava dispettosamente di tutta quella baldanza sistematica mettendo in aperto quanto era di difettivo e di contraddittorio nelle tre celebri scuole. Lo stesso con altro intendimento aveva fatto per lo innanzi Zenone d'Elea. Questa epoca della filosofia greca è nella storia della scienza pari a quella assai penosa età dell'uomo, nella quale cadono le illusioni della giovinezza, e il vero della esistenza si presenta la prima volta all'anima nella sua austera nudità: se in quel brusco trapasso non ci sovviene una virile speranza si corre gran rischio di restarne per sempre anneghititi. Età questa degna di grande studio e feconda più che altra di utili ammaestramenti per chi sappia cogliere in quella sparpagliata diversità le cause, che l'hanno originata e segretamente la governano. Così il fisiologo nelle convulsioni più dolorose dell'organismo vivente impara a conoscere fenomeni e leggi, che nelle tranquille funzioni di quello non gli si erano manifestate.
Dopo viene Socrate. Egli ebbe senza dubbio ingegno altissimo, se seppe ficcar l'occhio così bene nella natura dell'ingegno umano e ne' bisogni della scienza del suo tempo, da poter accennare il vero rimedio. Tanto Senofonte che Platone ci mostrano Socrate di continuo occupato a rimuovere, coll'arguto obbiettare, gli intelletti da quelle speculazioni sconfinate e fluttuanti, volgendoli ad un tema meno proporzionato alle loro capacità e di fondamentale importanza per la filosofia: l'uomo interiore. Tra le scuole sistematiche, che presumevano spiegare ogni cosa, e la sofistica di tutto dubitosa bisognava un uomo, che tentasse almeno d'apprendere alla ragione quello, che essa può fare e quello, che non può. E in questo senso va presa la sentenza di Cicerone, avere veramente Socrate fatta discendere la filosofia dal cielo. Questo sublime ufficio non è senza pericolo grave. Dire agli uomini a cui tanto accomoda credersi sulla retta via, che la via è sbagliata; svegliare in essi la coscienza sempre disgustosa della propria debolezza; prescrivere certi confini agli ardimenti della ragione, è cosa che troppo spesso tira addosso gli odî del volgo zotico e dottrinario. Socrate lo imparò a sue spese e l'insegnò. Ma l'opera sua rimase: non già che dopo lui non ricominciasse subito la corsa vertiginosa de' sistemi, ma per molto tempo si durò a sentire l'effetto di que' potenti ritegni voluti da lui imporre alla ragione, e dell'esempio e della autorità sua si giovarono quanti tentarono poi di ricondurre la scienza al buon metodo.
Volendo trovare un uomo da porre a lato di Socrate in modo che, fatto luogo alle differenti condizioni dei tempi ed alle qualità originali, ciò che solo rende possibile il confronto, ne risulti vera somiglianza, bisogna discendere fino a Galileo. Ambedue vennero in tempo di passaggio ed inaugurarono un'epoca di rinnovamento che da essi prese nome: combatterono la presunzione, l'ignoranza e l'usurpata autorità. Socrate fu solo e Galileo ebbe compagni valenti nella sua opera; ma d'altra parte si noti, che Socrate discorrendo massimamente le verità morali ebbe a validissimo appoggio il retto senso degli uomini tutti, nei quali il germe dei veri di tal fatta non è mai spento in pieno, mentre Galileo, in questo poco o nulla poteva sperare, molto invece aveva a temere, che nelle speculazioni sulla natura fisica, il gran pubblico giudica solamente dalla autorità o dall'apparenza, e questa e quella stavano contro di lui; esempio il sistema Copernicano. Sotto pretesto di religione ambedue furono manomessi, perchè nelle arditezze innovatrici dell'ingegno, la superstizione di tutti i tempi ha veduto, a buon dritto, una minaccia. Se poi da queste somiglianze estrinseche si va a quella più riposta e sostanziale del carattere, mi pare di ravvisarla grandissima tra questi due in quella semplicità e schiettezza, che velano di modeste apparenze fatti meravigliosi. Donde principalmente la bella forma dello scrivere, congetturata nel primo dal leggere gli scolari suoi, manifesta nel secondo per le opere scritte, modello di stile. Ad ambidue è proprio l'epigramma garbato e la ironia fine, che già prese nome di socratica[1]; questa appare temperatissima in Galileo, ma si vede a segni manifesti che e' vi pigliava gusto, quando non fosse impedito dal sussiego spagnolo, già entrato nei nostri costumi come nelle nostre lettere, e del quale non seppe in tutto tenersi mondo Galileo. A ogni modo nel dialogo dei massimi sistemi, la figura di Simplicio mi pare un poco della famiglia di quelle