Un giorno, mentre facevano colazione, la zia Carlotta venne a dire a Miss di vestir le bambine.
— Perchè, zia?... Dove si va?
La zia non rispose, ma il cocchiere aveva già attaccato: si andava al Capo. Veniva anche la mamma?
Prima d'andar via, le condussero nella camera dell'ammalata, che riposava, cogli occhi socchiusi; il nonno e la monaca stavano ai due lati del capezzale; la zia Carlotta teneva la fronte appoggiata alla spalliera del letto.
Ella sentì sollevarsi per le ascelle dallo zio, che disse:
— Bambina, bacia la mano a tua madre.
Baciò la mano bianca e fredda che usciva fuor del lenzuolo; ma il cuore le si chiudeva, perchè i baci alla sua mamma li aveva dati sempre in viso. Non parlava nessuno.
Quando furono in carrozza, con Miss e lo zio, ella chiese improvvisamente:
— Che cos'ha la mamma?
— Nulla, bambina... Sai bene, soffre un poco...
— Allora perchè la lasciamo?
— Andiamo innanzi; poi verranno gli altri.
Arrivati al Capo, tutta la gente di campagna circondò lo zio, e la moglie del fattore le condusse in casa. Era una giornata bella quanto mai, con un'aria così chiara che, dalla terrazza, Stromboli e Panaria quasi si toccavano con mano, ed anche il piccolo scoglio di Basiluzzo si scorgeva come un sassolino in mezzo al mare. Giù in giardino c'era un gran caldo e un gran silenzio; s'udiva il ronzare degli insetti che pareva il mormorio d'un discorso lontano. Sul tardi arrivò il portiere da Milazzo; appena lo vide apparire dietro il cancello, gli gridò:
— Vengono gli altri? Come sta la mamma?
Il portiere rispose soltanto, alzando un braccio, con una voce di spavento:
— Signorina!... Signorina!... — ed entrò correndo.
Allora lei comprese una cosa: che la sua mamma moriva. Non chiamò gente, non si mise nulla in capo: così com'era, uscì dal giardino per tornarsene in città. Avrebbe trovata la via, bastava andar sempre diritto, fino al Castello; di lì sarebbe scesa subito a casa.
La polvere che sollevavano le sue scarpe l'acciecava, due contadine che si tiravano dietro un asino carico di legna si fermarono a guardarla. Ella affrettò il passo; ad un tratto si udì chiamare:
— Signorina, dove andate?
Era il fratello del fattore che saliva dalla Croce. Gli rispose:
— Passeggio un poco, fino alla chiesa.
— Tornate a casa, signorina!... Venite con me!..
Come quell'uomo la prese per mano, tentò svincolarsi; egli la sollevò fra le braccia. Allora, dibattendosi furiosamente, scoppiò in tal pianto che si sentì vuotare. Le parve che tutte le cose girassero, poi la prese un gran freddo e non vide più nulla.
Quando riaprì gli occhi, Stefana la teneva fra le braccia, piangendo; si udivano i singhiozzi convulsivi di Lauretta nelle braccia di Miss.
— La mamma! Voglio veder la mamma...
Fece ancora per fuggire; Stefana la strinse tutta al petto, mormorando:
— Figlia mia! Povera figlia! La mamma è con la Madonnina santa, lassù in paradiso!...
III.
Degli abiti neri per tutti, la casa che parea vuota dopo la partenza degli zii di Palermo e il ritorno della zia monaca alla Badia — e le visite degli amici e dei conoscenti che si succedevano tutto il giorno nel salotto buio. Una volta, ella aveva udito il nonno che mormorava a uno di questi amici, parlando delle sue nipotine: «Povere bimbe, esse non sanno quel che hanno perduto!» Lei avrebbe voluto dirgli: «Sì che lo so, nonno!...» Ella vedeva la sua mamma tutte le notti in sogno, che le parlava, che le accarezzava i capelli, che se la stringeva al petto. Svegliandosi, si diceva per un poco, col cuore allargato da una gioia infinita: «Ma dunque non è morta!...» poi vedeva le sue vesticciole nere, e restava muta, cogli occhi fissi in un punto, senza muoversi, fin quando Miss o Stefana non venivano a chiamarla.
Però, a poco a poco, quei sogni si fecero più rari, non tornarono più. Adesso si ricominciava ad andar fuori, anche per la povera Lauretta che stava peggio dopo quel gran dolore. Andavano ancora sulla spiaggia di San Papino, alla Tonnara, al Castello; ma passando da San Francesco di Paola tutte facevano il segno della croce e recitavano delle preghiere, perchè la povera mamma era sepolta lì.
La chiesa era stata fabbricata dallo stesso Santo, tante centinaia d'anni addietro; anzi egli aveva operato un gran miracolo stirando una trave che non era lunga abbastanza: in mezzo agli affreschi del soffitto avevano lasciato una gran fessura dalla quale si scorgeva quel legno miracoloso. Il pavimento era tutto ricoperto di lapidi, ma lei girava intorno ad esse, col terrore di camminare sui morti, e arrivata dinanzi a quella della mamma, cadeva in ginocchio, a mani giunte. Come restava un giorno ammalata tutte le volte che vi andava, finirono per non condurvela più.
Quella disgrazia le fece ricordare il suo babbo: la sera chiedeva spesso a Stefana:
— Perchè non è venuto anche lui?... Gli hanno detto che la povera mamma non c'è più?... Non ha scritto al nonno?...
— Non so...
— E adesso dov'è?
— A Palermo.
Un giorno, dalla loggia del giardino, udì il portiere e il cuoco che discorrevano; parlavano del conte, il cuoco diceva: «Sua moglie dev'essere contenta!... Se aspettavano, non c'era bisogno del divorzio!...» Ella pensò un pezzo a questo; poi se ne dimenticò.
Il nonno era adesso più buono di prima, riversava il suo affetto sulle nipotine, le conduceva ogni giorno con sè, in campagna, al Gelso, una gran proprietà comprata da poco, nella pianura, dove piantava un vigneto. Quando fu pronto il villino che aveva fatto costrurre sul palmento, andarono lì invece che al Capo. Fu così allegra la prima vendemmia: tanta gente che andava e veniva ogni giorno, i grandi fuochi che accendevano sull'imbrunire, i canti e i balli delle contadine! Vicino a quella loro proprietà, ce n'era una dei Giuntini, che avevano una figliuola, Bianca. Com'era bella! Alta quanto una signorina, coi capelli più neri dell'inchiostro, il viso pallido, gli occhi profondi! Ella sentiva battere il suo cuore più forte al solo vederla, le stava dinanzi con una secreta soggezione, provava per lei lo stesso turbamento che rammentava di aver provato, a Firenze, pel conte Rossi. In breve divenne sua amica, e l'imitava nel modo di parlare e di muoversi. La prima volta che la baciò in viso si sentì tutta rimescolare. Invidiava il suo pallore così distinto, le sue vesti lunghe; e la voleva tutta per sè. Di ritorno a Milazzo, nel vederla con altre, credeva d'esser trascurata da lei; allora le si mostrava fredda, faceva la sostenuta; ma appena l'amica la prendeva per mano, il suo rigore finiva.
Bianca possedeva dei piccoli monili più belli dei suoi; un giorno che lo disse al nonno, egli le fece vedere quelli della povera mamma. Restò abbarbagliata. Quante perle! Quanti brillanti! Ella si provava gli anelli, faceva scattare le molle dei bracciali, versava le collane da una mano all'altra come piccole cascate, e assediava il nonno di domande sul nome di certe gemme che non aveva mai visto, sulle figure dei cammei, sulla composizione degli smalti. Pensare che tutte quelle bellezze erano metà sue e metà di Lauretta!
Però la sorellina non istava bene, non si divertiva a giuocare cogli altri ragazzi, e malgrado le sgridate del nonno, studiava da mattina a sera, a tavolino od al pianoforte, fino a riammalarsi. Un giorno vi fu una gran novità; si parlava di andare a Palermo dalla zia Carlotta, che li aveva invitati. Il nonno non voleva lasciar la casa nè mandarle sole; ella si mise a scongiurarlo a mani giunte perchè dicesse di sì. Alla Badia, una volta, lo udì parlare piano ma irritato