Tutti sanno come il primogenito, gracile per natura, perdesse interamente la salute e divenisse gibboso per le soverchie fatiche durate sui libri, e come fra lui ed i fratelli da un lato e il padre da l'altro, sorgesse, e a poco a poco si facesse profondo, il dissidio, perchè la stretta tutela in cui eran tenuti irritava i loro animi non meno fantastici che appassionati, e perchè nelle idee e negli affetti essi venivano scostandosi da Monaldo. È pure assai noto come la disperazione di Giacomo giungesse a tal segno da risolverlo a tentar la fuga dalla casa paterna, progetto fallito per caso. Che faceva, che pensava intanto la contessa? Tutt'assorta nel suo compito di amministratrice, non si accorse forse che tardi de la perduta salute e de la deformità di Giacomo; ed è doloroso il notare come questi, giovanetto, affettuosissimo per natura e di una sensitività esaltata, persuaso di dover morire ben presto, mentre seduto sul letto, di notte, al lume di una fioca lucerna, scrive, fra le lagrime, il suo Appressamento alla morte e si duole di dover perire come infante che parlato non abbia, senza che alcuno conosca il suo grande spirito, Giacomo, che teneramente si rivolge alla Vergine, non ha una parola per sua madre. Doloroso del pari è il rileggere quanto il marchese Solari scriveva a Monaldo, dichiarandogli apertamente che per lui la causa della tentata fuga di Giacomo doveva essere l'eccessiva severità della contessa.
Nei dissidi fra il padre ed i figliuoli ella teneva naturalmente dal primo, ma senza punto tentare di piegarlo a più indulgenza verso di quelli, senza punto usar loro quelle giuste larghezze che li avrebbero calmati, perchè non comprendeva quei cuori giovanili ed il loro bisogno di vita e di libertà. Ed ella avrebbe potuto tutto, ella che comandava veramente e cui tutti obbedivano. «Io a casa mia non sono padrone che delle frittate,» soleva dire Monaldo, che si sfogava a gridare contro le prepotenze delle mogli italiane, ma rimaneva sempre impigliato nelle gonne della sua e non osava, nè anche per cose lievissime, affrontare il muso di lei, come scrisse Paolina. Per quei giovani focosi, esaltati, era un vivere senza vita, senz'anima, senza corpo, che faceva desiderar loro ad ogni momento la morte. In Giacomo, infelicissimo fra tutti, e nella grandezza del suo spirito conscio di tutte le sue sventure, si spense ogni vivacità, ogni allegrezza, e venne a mancare a poco a poco persino la speranza e la fede: egli, dopo anni di dolore che gli parvero secoli, riuscito ad andarsene di casa, si ricorda assai spesso di mandare i suoi saluti alla madre, ma non le scrive quasi mai; ed ella a sua volta tarda lunghi anni a dargli un aiuto materiale, e non lo dà finchè non è richiesto; e pure ella doveva sapere quanto questa domanda dovesse riuscir incresciosa a l'animo delicatissimo ed altero del figliuolo. «Son più le volte che senza qualche soccorso di amico sarebbe stato digiuno, che non quelle in cui avrebbe mangiato,» asseriva G. B. Niccolini alla marchesa Lucrezia Niccolini-Monti, andata sposa in Recanati, cui aveva chiesto se la famiglia Leopardi navigasse in pessime acque, rimanendo stupito al sentire che no. Certo però Adelaide non supponeva le reali strettezze di Giacomo, perchè, come Monaldo ebbe a scrivere a questi, ella credeva le lettere una miniera d'oro, la quale rendesse inutile ogni altro sussidio a quel figlio che pure ella amava tenerissimamente.
Che lo amasse ne fa fede tutto l'epistolario leopardiano. Nel 1825, quando Giacomo da Milano tornò a Bologna e scrisse a casa degli accordi con l'editore Stella e della lezione al giovane greco, Paolina, che in quel tempo non era certo tenera della madre, rispondeva al fratello: «La mamma vuole che ti saluti e ti risaluti; essa quasi piangeva dalla consolazione nel leggere la tua ultima, e si rallegra con te e spera che sarai sempre più contento.»[5]
Anche la breve letterina, una delle due che ci rimangono, scritta da Adelaide al figlio il 29 novembre 1822, quand'egli, per la prima volta lontano da casa, si trovava a Roma, ha frasi affettuose, e assai più che non dicano significano forse quelle righe: «Molto mi ha rallegrato la vostra lettera, ma molto più quella che avete scritto al babbo da Spoleto. Vedo che conoscete bene i vostri doveri a suo riguardo e ciò mi è garante della vostra buona condotta in avvenire.»
Chi rammenti i dissapori profondi tra Monaldo e Giacomo deve sentir qui il dolore che ne provava Adelaide, e un rimprovero, un consiglio dato con una delicatezza veramente femminile e veramente materna. «Sapete quanto io vi amo sinceramente e qual spina mi sia stata al cuore il vedervi sempre malcontento e di malumore.... abbiatevi moltissima cura e non trattate persone indegne.... amatemi e credete sempre all'affetto sincero della vostra affezionatissima madre, che vi abbraccia e vi benedice.»[6]
Queste semplici frasi spirano un affetto sincero e una santa premura, della quale nelle lettere dei parenti a Giacomo si trova traccia ben spesso: ora è Paolina (9 dicembre 1822, pag. 47, vol. cit.) che scrive al fratello: «Mamma non fa che lodarsi di voi e compiacersi grandemente delle vostre lettere»; ora è Adelaide stessa che dice al suo «carissimo ed amatissimo figlio, al suo figlio d'oro» d'esser tanto lieta delle sue buone notizie e di aver infinita riconoscenza pei parenti di Roma, che gli si mostrano gentili (26 gennaio 1823, pag. 82, vol. cit.); ora è Monaldo, che gli parla della grandissima consolazione provata dalla madre, sentendo che egli non si è piaciuto di Milano quanto in casa temevano: «Giacchè ci avrebbe amareggiati assai, o la vostra lunga dimora costì, o il vedervene partire con molto rammarico» (30 agosto 1825, pag. 121, vol. cit.); ora è di nuovo Paolina, che ringrazia il fratello per parte della madre e con viva riconoscenza della premura usatale di cercar d'una sua antica servente e di dargliene notizie: «Mamma vuole che ti saluti nuovamente e che ti parli del suo grande affetto per te.» (13 dicembre 1825, pag. 143-144, vol. cit.) Malgrado questo, Giacomo non aveva altro pensiero, altro desiderio che quello di starsene lontano da Recanati, ed è certo che non poco vi contribuiva il ricordo della severità che la contessa metteva in tutti i particolari della vita domestica. «Veramente ottima donna ed esemplarissima, si è fatta delle regole di austerità assolutamente impraticabili, e si è imposti dei doveri verso i figli, che non riescon loro punto comodi»; scriveva Paolina (26 maggio 1830) a Marianna Brighenti; Paolina, che già trentenne doveva farsi indirizzare le lettere dell'amica presso il suo vecchio precettore, non permettendole la madre ch'ella facesse amicizia con alcuno, perchè ciò, secondo lei, distoglieva da l'amore di Dio; e non voleva veder lettere dirette a la figlia, a la figlia trentenne, nè pure se fossero state del suo santo protettore. La povera contessina, che desiderava conoscere di persona le sue amiche Brighenti e sapeva di non poterle accogliere in casa, doveva rinunziare anche al piacere di vederle in chiesa o da la finestra (esse sarebbero andate a Recanati sol per procurarle questa gioia), perchè in chiesa andava unicamente la festa e accompagnata, e quel ch'ella poteva vedere da la finestra era sempre sorvegliato da sua madre, la quale girava per tutta la casa, si trovava da per tutto e a tutte le ore. (Vedi Lett. di Paolina ad Anna Brighenti, 4 marzo 1831). Tale severità irritava anche la mite contessina; mentre d'altra parte Adelaide, più che tutti gli altri di famiglia, si dava pensiero di cercare uno sposo a quella figliuola e voleva che si tentasse di combinare, anche quando le più gravi difficoltà eran palesi. Più duro di tutti i figli verso di lei fu Carlo, nelle lettere del quale troviamo frasi acerbe assai; una volta (Lett. a Giac., vol. cit., pag. 182-183) dubitando che Adelaide avesse aperta una sua lettera a Giacomo, consegnatale perchè la francasse, riscriveva al fratello dicendogli di questo dubbio e come la madre avesse rifiutato ostinatamente di toglierglielo, e prorompeva contro la curiosità donnesca e l'imperiosità insopportabile di lei; confessando però egli stesso d'essere in un momento di rabbia incredibile. Pare che la contessa e Monaldo aprissero infatti la corrispondenza dei figliuoli e la intercettassero talvolta, cosa che formava la disperazione specialmente del primogenito; nè la buona intenzione con cui lo facevano, basta a giustificarli. Ma nella loro severità, come ne l'inesorabile economia di Adelaide, non v'era mai punto mal animo, e la contessa doveva amar di cuore tutti i suoi cari, se mostrava tanto rincrescimento quando s'allontanavano da lei, se una volta il ritorno improvviso di Monaldo la fece quasi svenire,[7] se non seppe mai rifiutare a Giacomo i soccorsi ch'egli chiese (modestissimi è vero e domandati in modo che niuno che avesse cuore poteva negarli); ma li accordò anzi con parole tali da commuover lui, che pur diceva non esser più capace di verun sentimento; se la sua vita intiera fu consacrata a la famiglia; se quand'ella morì, nella sua camera fu trovata la seggiolina in cui eran stati seduti tutti i suoi figliuoli bambini, seggiolina che, con atto di tenerezza materna, ella