I Côrsi di Terra di Comune e i conti di Cinarca, vedendosi allora ruinare sul capo cotesto nuovo flagello di dominazione straniera, ed anco saliti in furore per trovarsi così venduti e rivenduti peggio che bestie in fiera, accontatisi insieme, fermarono di darsi ai Genovesi mercè certe convenzioni di cui fecero carta; la quale, sebbene sia andata dispersa, pure il contenuto in grazia di vecchi scrittori delle cose patrie, pervenne fino a noi. Voi mi direte: «Questo darsi a bel patto in potestà altrui fu affare serio»; ed io rispondo: seriissimo e degno del castigo che Dio per mezzo di Samuele fece sapere agli Ebrei sarebbe loro cascato addosso, quando di riffa vollero costituirsi un re. In effetto il castigo non si fece aspettare; imperciocchè scappasse fuori di levante una morìa, la quale avventatasi su l'isola menò tanta strage, che il terzo degli abitanti appena rimase vivo. Veramente pareva che avesse a bastare: piacque in altro modo alla provvidenza, e la peste fu per così dire l'antifona del salmo. Ma qui facciamo punto e miriamo qual fosse lo stato dell'isola in cotesto tempo. I signori a posta loro se ne dicevano gli Aragonesi e i Genovesi; quelli per investitura pontificia, questi per virtù di arme e per patto. Ora esporvi anco alla grossa gl'indiavolati viluppi che ne successero, sarebbe troppo lunga la storia; bastivi che gli Aragonesi non essendo comparsi nell'isola così tosto come temevano, dei conti, che si erano sottoposti ai Genovesi, incominciò la più parte, massime i cinarchesi, a friggere per la maluriosa soggezione.
I Genovesi mandarono in Corsica Tiridano dalla Torre per tenerli al quia; e i conti, conoscendo da sè soli non poter mordere, spedirono Arriguccio della Rocca in Aragona al re Pietro, per soccorsi; scarsi però, quanti bastassero al tenere in subbuglio il paese e lo stremassero di sangue agevolandogliene l'acquisto. Quando il re Pietro conobbe i Genovesi dalle contese quotidiane ridotti al lumicino, mosse ad opprimerli; e gli riuscì di leggieri sgomberarne l'isola, tranne Calvi, Bonifazio, San-Colombano e qualche distretto in Terra di Comune. Inferma la repubblica, cinque mercanti accozzatisi in Banchi dissero: «Lo stato in mano della signoria va come acqua messa nel vaglio; facciamo un negozio in comune e tentiamo di guadagnare la Corsica per noi.» Detto, fatto; la signoria, che, simile a papa Lione, quello che non poteva avere, donava, risegnò la Corsica ai cinque mercanti, i quali, costituitisi in società commerciale chiamata la Maona, raccolsero armi ed armati e vennero a combattere Arriguccio. Costui datene e ricevutene parecchie, all'ultimo disse ai Maonesi; «Che Dio vi aiuti, in Corsica che cosa ci siete venuti a fare? Per guadagnare di certo. Ed io perchè ci sto? Forse per perdere? Ma continuando di questo passo voi ed io ci rimetteremo il mosto e l'acquerello: accordiamoci; accettatemi sesto tra voi, e viviamo in pace.» Piacque il partito, e si spartirono l'isola. Intanto che Arriguccio patteggiava così co' Genovesi, persuadeva ai baroni côrsi non si movessero, aspettassero il destro di coglierli alla spicciolata; nè la occasione si lasciò attendere un pezzo, conciossiachè, stipulato il convegno dei Maonesi, chi andò di qua, chi di là: rimasero insieme due di loro con poca gente, e questi improvvidi assalirono, uno ammazzarono, l'altro fatto prigione ebbe a riscattarsi con seimila fiorini di taglia. I superstiti dei Maonesi, stroppi tra per questi tra per altri casi che si tacciono, un bel giorno, mandata la Corsica dove Luigi XI mandò Genova, voglio dire al diavolo, grulli grulli se ne tornarono a casa. Ma quel dovere lasciare la Corsica era per Genova una gran spina al cuore; per la qual cosa la signoria trovandosi meglio fornita di danaro, ripigliata la concessione, ci manda governatore lo Zoaglio, che venuto alle mani con Arriguccio lo sconfisse. Costui ch'era della razza di Anteo, il quale picchiato un tonfo in terra si rizzava più rompicollo che mai, tornò in Aragona, dove, ottenuto qualche sussidio dal re Giovanni, si fa vivo da capo su per le rupi dell'isola: indi a breve la grande computista dei conti umani tirò di frego alla sua vita facendo la somma: morì senza figli, ad eccezione di Francesco bastardo. Accorsero i parenti a stormo urlando: All'albero caduto accetta, accetta! Chi tira un brandello del suo retaggio, chi l'altro; sicchè Francesco, disperato, se non volle rimanere ignudo, ebbe a vendere al comune di Genova il castello di Cinarca per mille scudi di oro e le ragioni tali quali si trovava a possedere egli sopra la Corsica pomontana.[13] Per questo modo tornata in mano della signoria di Genova la stanga del torchio si mise a strizzare a suo bell'aggio il paese, finchè Vincentello d'Istria, parente di Arriguccio, non si reputando vincolato dalla vendita di Francesco, tentò più volte ripigliare il suo con armi proprie.
Provata la fortuna contraria, si volge, secondo l'antico costume, al re di Aragona, il quale per questa volta intende usufruttare per sè le pontificie munificenze: sceso armato nell'isola, di leggeri occupa i luoghi aperti, espugna Calvi, mette l'assedio a Bonifazio. I benestanti, come suole, più studiosi della roba che della libertà, accordano rendersi, dove la città non venga soccorsa dentro certo termine prefisso. La vigilia della scadenza il popolo tumultua e cassa il convenuto; mandansi messi per notificarlo al re Alfonso, allegando per causa il soccorso nella notte antecedente entrato in città. Alfonso nega possa essersi intromesso il soccorso e li rinfaccia di fede tradita: i Bonifazini a purgarsi del rimprovero e in testimonio di verità esibiscono due caci freschi, i quali