Come a quei tempi le cose camminassero io non vi so dire per appuntino, nondimanco, essendoci guerra tra popolo e baroni, e non potendo questi vincere quello, nè quello questi, è facile indovinare che le procedessero per la peggio. Intanto, poichè non ci ha meraviglia che in Roma non si deva vedere, scappò fuori Gregorio VII, il quale, vicario di Cristo, che disse a cui non lo volle sapere, il suo regno non essere di questa terra, pretese nulla meno che dominare sopra tutta la terra. Costui, informato come la matassa andasse arruffata in Corsica, ci mandò legato Landolfo, vescovo di Pisa, a scoprire marina, limitando però il suo ufficio a distruggere, sradicare e costruire in punto di religione, non altro. Il vescovo ch'era malizioso più di una squadra di sbirri, trovato il terreno morbido, non contento di ficcarci la pala, ci ficcò anche il manico, disse mirabìlia della potenza del papa, promise Roma e toma; sicchè i popoli ignoranti e abbindolati si commisero al papa a patto che con validi aiuti li sovvenisse per superare i baroni di oltremonte. Il papa rispondendo mette in sodo avanti tutto questa volontaria dedizione, poi gli ammonisce ch'egli è per di più: perchè eglino avrieno a sapere, come l'universo intero lo sa, il dominio dell'isola appartenere alla santa Chiesa per diritto di proprietà; ladri, sacrileghi e dannati i tre imperatori e i tre re che la tennero senza prestare l'obbedienza a san Pietro. Il legato si trasforma in governatore, si mettono da parte le cose dell'anima per non parlare altro che di faccende terrestri. Però il carico assunto di difendere l'isola il papa teneva per novella: in lui non era potere nè volere a sostenere la guerra: ond'egli, inteso a mietere senza seminare, concesse l'isola in feudo al medesimo Landolfo, a condizione che gli retribuisse le metà delle rendite: non vi par egli generoso costui? Al tributo di sangue ei rinunzia, ma cresce quello dei frutti da un quinto, come sotto Gregorio IV, alla metà. Dopo quattordici anni Dalberto, vescovo di Pisa, uomo rotto, visto che la carne non valeva il giunco, scrisse al papa che egli a pescare per il proconsolo non la capiva: ripigliasse l'isola. Urbano, considerato tra sè e sè ch'egli era come se il vescovo gli avesse risegnato la luna, rispose: «Mira larghezza! io te la dono.» E l'altro soggiunse: «Manco male, ricatterò le spese.» Però quando fummo su l'atto del donare, ostico a tutti, ma per la Chiesa più doloroso dello spasimo del parto, il papa mascagno insinuò nel contratto due cose: che donava l'isola alla chiesa pisana, quantevolte però il vescovo fosse stato eletto canonicamente dal clero e dal popolo e confermato dal papa; e retribuissero al palazzo lateranense l'annuo censo di lire 50 in moneta lucchese. Così quello che non può tenere, Roma dona; ma come i marinari quando gettano l'àncora in mare ci lasciano sopra il gavitello galleggiante per ripescarla a tempo e a luogo, il prete studia ch'esca fuori del dono un addentellato per poterselo ripigliare.
Giustizia vuole che io dica come i Pisani dimorassero nella isola con garbo assai migliore di quello col quale ci entrarono: noi non reputarono essi vassalli, nè noi reputammo essi signori: ci accolsero come fratelli tornanti in famiglia; accomunarono con noi carichi ed onori: anzi ci alleviarono i primi, trovandoci alle lunghe sventure ridotti al verde.
E di questa benevolenza scambievole durano tuttavia i testimoni sia nei monumenti pubblici, sia negli animi dei Côrsi, propensi a stanziarsi in Toscana a preferenza di ogni altro paese, quando necessità o vaghezza li tira fuori di casa; e più che tutto nella lingua loro, da noi conservata con tanta diligenza, che qualche voce costà disusata, o non più intesa quaggiù, s'incontra sopra le labbra dei montanari viva della sua primitiva significazione. I cagnotti di corte non cessano mai d'infamare il popolo come ingrato: voi per ismentirli fate tesoro del caso che vi raccontava, al quale aggiungerete quest'altro: degli oppressori antichi, dei Romani e dei Saraceni qui non troverete memoria, ed in breve nè anche dei Genovesi, eccetto qualche tomba. Fama, delitti e ossa dei vecchi e dei nuovi tiranni seppellimmo interi dentro un medesimo sepolcro.
Ora i Genovesi, sopportando molestamente la parzialità di Roma per Pisa, studiano ogni ora per levargliela convertendola in proprio profitto, o almeno per pareggiarla; e la fortuna, come suole a cui sta su la intesa, ne porse loro il destro. Urbano II, per tenersi bene edificato Dalberto, lo creò arcivescovo assegnandogli suffraganei i vescovi di Corsica; questi, subillati dai Genovesi, ricusavano a viso aperto la consacrazione dello arcivescovo di Pisa, il quale pesta mani e piedi; e i Genovesi lì alle costole a mettere legna sul fuoco. Questo era tempo che Roma, voltata a Genova, le dicesse: «Com'entri tu in questi negozi? Bada ai fatti tuoi, o che ti scaravento addosso un nugolo di scomuniche»; e le scomuniche a quei giorni scottavano. Pensate voi che lo facesse? Nè manco per ombra. Roma in mezzo a cotesto tafferuglio non vide chiaro che una cosa sola: raspollare quattrini. In effetto considerate che spedienti adopera per aggiustare due emuli insatanassati: innalza il vescovo di Genova alla medesima dignità dell'arcivescovo di Pisa e gli assegna per suffraganei tre vescovi côrsi di Mariana, di Nebbio e di Accia, a patto che ogni anno paghi una libbra di oro, a san Pietro, ci s'intende. Naturalmente e' fu uno spegnere l'incendio coll'olio: d'allora in poi fra Genovesi e Pisani non tregua mai nè pace, nè si rimasero i primi finchè non ebbero ridotti in piana terra i secondi. Innanzi però della rovina della Meloria, ecco come i Genovesi arrivarono ad incastrarsi nell'isola. Gli uomini di Bonifazio esercitavano la pirateria (mestiero a quei tempi tenuto nobile, quantunque fatto a minuto) recando continui danni ai Genovesi, frequentatori di coteste spiaggie per loro traffici. Di ciò meritamente stizziti, commisero ai proprî consoli che andassero a richiamarsene ai consoli di Pisa, e questo essi fecero. Venuti al cospetto dei Pisani favellarono: «E' non ci pare onesto, uomini dabbene, che, mentre la pace dura fra noi, i vostri concittadini corrano addosso ai nostri e gli spoglino. I vostri castellani bonifazini fanno il diavolo a quattro a danno della nostra mercatanzia: ciò non istà in chiave: ordinate pertanto a costoro che restituiscano il mal tolto, altrimenti sarà rotta la pace, e cui avrà torto faccia tristo Dio.» I Pisani risposero: «Quello che voi ci dite ci accora forte, perchè avreste a sapere che il castello di San Bonifazio non ci appartenga, e i castellani, innanzi di essere nostri uomini, ci contradicano in tutto e come i vostri mettono a ruba i mercatanti nostri: accordiamo a raccogliere insieme un'armata e andiamo uniti a farli stare in cervello.»
Non dissero a sordo. I Genovesi, allestito un naviglio poderoso alla chetichella, assaltarono i Bonifazini quando se lo aspettavano meno ed occuparono la terra. Se i Pisani levassero scalpore per la presa di Bonifazio, ve lo potete figurare: ma i Genovesi rispondevano: «Voi vi lagnate di gamba sana: invece di ringraziarci di avervi levato un bruscolo dall'occhio senza che vi costi un quattrino, perchè ci maledite?» E aumentavano le provvisioni per difendere l'acquisto, perchè i Genovesi quando mordono tengono maladettamente: così vero questo che, per rammentare Genova, stringono le mascelle per paura che, non che altro, il nome della patria caschi loro dai denti. Rimase ai Pisani con le beffe il danno, pagando la pena della doppiezza loro. Donde io piglio occasione di ridere dei barbassori i quali si mettono in quattro per sostenere la diplomazia trovato moderno: no, signore, la diplomazia è vecchia quanto la bugiarderia, anzi una volta si riputava una cosa stessa con lei: soltanto ai dì nostri a taluno essendo venuto talento di separare la diplomazia, ci ha rinvenuto la bugiarderia e la gagliofferia rinterzata con la sfrontatezza. Appena i Genovesi ebbero messo il piede nell'isola, incominciarono a gittare con la pala ai Bonifazini danari, privilegi, insomma ogni bene di Dio: donde entrò, se non in tutti, almeno in corpo a moltissimi la voglia di venire a parte della cuccagna: arti antiche e tuttavia sempre efficaci;