Io abitava una stanzetta più vicina al cielo che alla terra.
Un bel mattino, sento bussare alla porta. Nessun altro fuorchè un creditore avrebbe osato salire a tanta altezza.—Avanti!—A quell'epoca i creditori non mi facevano paura; mi rendeva forte, al loro cospetto, la certezza di non avere con che pagarli.
Sventuratamente, quella mattina non si trattava d'un creditore. Era il primo anello della grande catena conjugale che veniva ad introdursi nel mio libero domicilio, sotto le sembianze di un idiota.
Appena io mi ricordava d'aver veduto una o due volte quel fatale personaggio. Bel giovine, del resto, tutto profumato e azzimato—uno di quei figuri a cui il mal di fegato o qualche altro vizio degli intestini suol dipingere il volto di quel pallore, che alcune donne sogliono chiamare la vernice del sentimento. La sua bruna capigliatura stillante di cosmetici, l'occhio grande ed incavato, il languore del collo, il cascante abbandono della persona, davano a lui una cert'aria di genio sventurato che, a vederlo da lunge, lo rendeva interessante. Vi ho già detto alla prima presentazione che egli era un idiota, ed ora credo bene ripetervelo, perchè non vi facciate sul di lui conto alcuna illusione.
—A che debbo il piacere... l'onore.
Il mio visitatore stralunò gli occhi, e sorrise, stendendomi la mano in atto di cordiale benevolenza.
Poi, innanzi di profferire parola, si tolse dalle tasche un portafogli, ne levò fuori un pajo di lettere profumate, e, dopo averle guardate senza aprirle con una espressione di compiacenza misteriosa che attirava alla superficie del suo volto tutto l'ebetismo del suo cervello, finalmente sciolse la favella:
—Ella deve sapere.... cioè a dire.... che essendo noi tutti giovani..... cioè a dire..... che siccome vi hanno delle donne... e siccome tutte le relazioni cominciano per via della via....»
E, proseguendo su questo tono per un buon quarto d'ora, egli riuscì a farmi capire come ei fosse innamorato d'una bella ed elegante signora, la quale dopo molte dimostrazioni di indifferenza e di ritrosia, si era alla fine lasciata sedurre a rispondere alle sue lettere. E parendogli che quelle lettere fossero scritte con una eleganza di stile ed una elevatezza di idee non comune, aveva pensato di rivolgersi a me, perchè lo aiutassi nel suo epistolario, dettandogli delle risposte commoventi, infuocate, irresistibili, mercè le quali egli si teneva sicuro di vincere in breve tempo le esitanze dell'angelo adorato. Nella mia qualità di segretario amoroso, io avrei percepito il vistoso emolumento di lire quattro per ciascuna lettera. Il proprietario d'un foglio teatrale, dove a quell'epoca io faceva le mie prime armi nella critica, non mi dava tanto per una appendice di dieci colonne.
La strana proposta eccitava in sommo grado la mia curiosità. Quell'epistolario aveva per me tutte le attrattive di un romanzo; e, siccome le due lettere dell'incognita dama rivelavano propositi di virtù e di resistenza ad ogni costo, io mi sentiva piccato da un satanico desiderio di misurare con quella fiera ed appassionata Penelope la forza del mio stile e la efficacia del mio lirismo amoroso.
Accettato l'incarico, mi diedi subito all'opera. Il mio cliente si assise allo scrittoio; ed io gli dettai una lettera di quattro pagine, così esuberante di passione, così gonfia di ampolle, che l'altro tratto tratto balzava dalla seggiola come scosso dall'elettrico.
«Buona!.... sanguinosa!.... assassina!» esclamava il giovane ad ogni frase che io andava dettando. E quando veniva in campo una parola poco usitata e non compresa da lui, in luogo di chiedermi una spiegazione, portava la mano al cuore, o sbuffava un grosso sospiro che assomigliava a un grugnito.
La mia prima lettera era una confutazione di quelle venerande teorie di fedeltà coniugale, che noi non cessiamo di chiamare assurde fino al giorno in cui, impigliati dal matrimonio, comprendiamo il pericolo di professarle e di propagarle—era una tremenda requisitoria contro i mariti, la quale si chiudeva con un inno alla libertà ed alla assoluta indipendenza della donna, degno d'un comunalista.
Non è a dire con quale compiacenza, dopo aver letto e riletto quel mio squarcio di eloquenza, l'amico si fece a delinearvi la propria firma. Per conquistare i favori del bel sesso, oltre alle attrattive di un volto fiammingo, la fortuna aveva dato a colui un nome ed un cognome de' più interessanti.
Egli si chiamava Arturo della Valle. Pensate se una donna di immaginazione un po' viva avrebbe potuto resistergli!
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La risposta della signora non si fece attendere a lungo, Di là a due giorni, il bell'Arturo tornò alla mia camera con un foglio color di rosa nella mano e il volto irradiato dalla gioia.
Nello scorrere lo scritto provai un leggero fremito d'orgoglio. La mia eloquenza aveva prodotto il massimo effetto. La signora confessava che le mie parole le avevano suscitata nel cuore una tempesta. La sua fede era scossa; i suoi propositi di virtù e di resistenza più non rappresentavano che una figura rettorica. Si dichiarava infelice come la Teresa dell'Ortis, come tutte le Terese che amano debolmente il loro consorte legittimo. Pregava l'amico di obbliarla, e dopo alcune linee invocava la sua protezione, confidava di trovare in lui un alleato nella lotta a cui andava incontro. A sua volta protestava contro la tirannide delle leggi sociali, deplorava la schiavitù della donna, ma al tempo stesso si riteneva colpevole per non aver opposta una più energica resistenza al sentimento che l'aveva dominata. «Scriviamoci, diceva essa, scriviamoci sovente: procuriamo di fortificarci e di animarci l'un l'altro alla dura battaglia che siamo chiamati a combattere... Io conto sulla tua alleanza come su quella di Dio... Mostriamo di saper soffrire, e il nostro amore diverrà una religione, nè potrà mai aver fine.»
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Il bell'Arturo, quantunque idiota, comprendeva che quella lettera era promessa di un prossimo trionfo.
E frattanto il mio cuore era in preda alla più viva commozione.
Rare volte mi era accaduto di dover ammirare in uno scritto di donna tanta vivezza di immagini, tanta castigatezza ed eleganza di stile. Quella lettera avrebbe portato con onore la firma della Donna Gentile, e figurato superbamente nell'epistolario di Foscolo.
Io mi sentiva piccato di emulazione; e, quantunque si trattasse di causa non mia, e provassi una certa ripugnanza nel prestare il mio ingegno alla perdizione d'una donna di spirito ed al trionfo d'un imbecille, pure la novità del caso e quella certa compiacenza satanica che tutti proviamo nel veder svilupparsi uno scandalo, mi ispirarono una seconda lettera non meno eloquente della prima, e forse più calda e appassionata.
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Non intendo descrivervi tutte le fasi di quell'epistolario. Vi basti sapere che, fosse effetto della mia eloquenza, fosse prepotenza naturale di simpatie, al quinto carteggio la signora promise un abboccamento.
Il convegno della coppia avventurata doveva aver luogo sul bastione fra porta Renza e porta Tosa, alle sei del mattino.
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Difficile mi sarebbe esprimere ciò che io provai, all'avvicinarsi della catastrofe. Il mio turbamento era tale, che io non poteva a meno di chiedere a me stesso, se qualche cosa di somigliante all'amore si fosse impossessato di me. Nel mirare la gioia del bell'Arturo, nell'udire le sue esclamazioni grottesche, io sentiva uno spasimo non mai provato.
Io non poteva darmi pace all'idea che quello stupido animale fosse predestinato al possesso di una donna, ch'egli più volte mi aveva dipinta quale un angelo di bellezza e che io, attraverso le grazie seducenti del suo epistolario, aveva tanto ammirata. Io cominciai a sentire il rimorso della mia complicità. Il desiderio di impedire quel colloquio pareva a me suggerito dagli impulsi della gelosia.—Era io dunque innamorato? Questa domanda mi affannava e mi irritava. E quando io mi studiava di volgerla in celia, sentiva che i miei sforzi erano vani. Che non avrei tentato per mandare a vuoto quell'abboccamento,