Gino fu accolto con gran festa alle Vaie. Come aveva trovato il soggiorno di Querciola? Brutto, naturalmente; ma tanto meglio per i Guerri, che avrebbero avuto la fortuna di vedere il loro ospite più spesso. Si capisce che tornò in campo la proposta già fatta da Aminta, e che il conte Malatesti credette obbligo di piccola cortesia schermirsi un pochino, ma obbligo di vera riconoscenza accettarla. Per intanto, volendo adattarsi agli usi della famiglia, ricusava di far colazione. I Guerri pranzavano a mezzodì, e cenavano alle sette Erano allora le dieci, ma Gino non aveva fame, poteva aspettare, sarebbe stato felicissimo di aspettare il mezzodì. Per la cena, s'intende, avrebbe dovuto contentarsi di farla a Querciola.
Tutte queste cose furono presto discusse e concertate. Poi il signor Francesco e suo figlio Aminta si ritirarono, avendo qualche negozio da sbrigare, e il conte Malatesti se ne andò in giardino, anche per lasciar libere le signore di attendere alle faccende domestiche da quelle buone massaie che erano certamente, e desiderose di dar occhio a tutto nel governo della casa.
Poca cosa, il giardino, non essendo la stagione ancora molto inoltrata. Quella primavera, il Cimone aveva raccorciato, ma non buttato via, il suo mantello di neve, e le notti delle Vaie erano ancora freddine, ma accanto al giardino scarno si vedeva la stufa, e questa era piena di vasi d'ogni grandezza, disposti in ordine, a scaglioni, tra cui si poteva passare comodamente, ammirando una bella varietà di piante, anche delle specie più rare. Gino Malatesti ammirò una graziosa raccolta di eriche, coi fiorellini fitti fitti, foggiati a campanule bianche e vermiglie.
Mentre stava osservando quelle eriche, non sapendone il nome e la provenienza, ma indovinandone il pregio, gli baluginò davanti agli occhi la fanciulla dei Guerri, escita allora dal porticato della casa alla luce aperta del giardino. Lasciò subito di guardare le piante e si avanzò verso l'invetriata della stufa, per veder meglio la gloriosa apparizione, che incedeva snella e leggiera tra le aiuole deserte di fiori. Era essa il fiore del giardino, il giglio delle convalli, e la sua bellezza verginale si accordava maravigliosamente con quella dell'agreste natura.
—Bella ragazza, in fede mia!—disse Gino tra sè.—Chi sarà il felice mortale che la sposerà? Mi pare che abbia l'età da marito, oramai. Ma qui ci saranno partiti per lei? Questi re della montagna son ricchi, sicuramente; ma le loro pretese, dato il luogo, non possono mica essere troppo alte, o lo saranno solamente… sul livello del mare.—
Quella scappata del suo pensiero lo fece sorridere; ma non s'indugiò, il pensatore, e riprese subito il filo del suo ragionamento.
—Bella ragazza, in fede mia!—ripetè egli, come per pigliar la rincorsa.—L'uomo che la sposerà può dirsi fortunato fin d'ora. Ma forse, come troppo spesso avviene, sarà un uomo che non intenderà la propria fortuna. Questa fanciulla è un fiore alpino, ma cresciuto in una stufa, come queste eriche maravigliose. Suona con grazia e sentimento; conosce parecchie lingue; ha avuto certamente una educazione inferiore a questo livello barometrico, ma superiore a questo livello sociale. Dove sarà stata in conservatorio? A Modena, o a Reggio; fors'anche da quest'altra parte, in una città di Toscana. Mi pare d'indovinarlo da una certa rotondità di pronunzia, da una certa scioltezza di frase. Questi fiori umani, educati con gran cura per la vita elegante di una città, vengono ad avvizzir qua, tra boscaiuoli e caprai. Povere fanciulle! Vivono in un ambiente che non dovrebbe più essere il loro; risplendono inutilmente, nella delicatezza delle loro forme, ad occhi che vedono grosso come quelli de' buoi; spandono soavità di profumi per nari disavvezzate nel grave odore della terra smossa. E qui, care angiole, fanno delle torte, come la Carlotta del Werther, quando non lavano i pannilini al torrente, come la Nausicaa dell'Odissèa. Sì, ma poi fanno anche dei figliuoli robusti e belli come il signor Aminta, destri cavalieri e gran cacciatori, induriti al sole dei campi e all'aria sottile delle Alpi. Buona razza montanara, veramente italiana, all'antica! E infine, la vita non è meglio così, con una mente sana in corpo sano? Ma allora, tra questi usi patriarcali, a che serve la coltura dello spirito? Che sciocco son io! Serve per chi l'ha, gli tien buona e fidata compagnia, lo aiuta a vivere, facendogli intendere la rara bellezza di tutto ciò che lo attornia. Io stesso, che ho studiati i classici, non sento più profondamente il bello di questa natura agreste, e meglio che non faccia il popolo che ci è nato? Bella fanciulla dei Guerri, salute a voi! Possiate trovare la pace dell'anima su questi monti, goderne l'aspetto e l'aria balsamica, senza desiderare di più! Possiate trovare a marito un uomo non troppo zotico e materiale, che si mostri degno di possedere la bellezza della vostra persona, intendendo meglio la delicatezza del vostro pensiero!—
Era un monologo in tutte le regole, il suo. Ma noi li stendiamo sulla carta, i monologhi, e dobbiamo tirarli a fil di logica, mentre nel fatto essi procedono più rotti nell'argomentazione e più snelli. Molte cose, necessarie nella scrittura, lo spirito le vede e le tralascia, non dicendo a se stesso se non quel tanto che gli piace di più.
Il conte Gino, per altro, non fu molto contento del suo soliloquio. E perchè, Dio buono, se lo aveva fatto egli? L'uomo è di sua natura egoista. Si può senza troppo sforzo di educazione arrivare al punto di non desiderare la casa e la fortuna del prossimo; ma nessuna educazione può condurci a vedere di buon occhio che altri s'impadronisca e goda il pacifico possesso d'un fior di bellezza che abbiamo osservato ed ammirato noi. Noi, capite? Noi persona prima del singolare, quantunque i grammatici, buona gente, l'abbiano assegnata al plurale. L'ammirazione nostra è una specie d'ipoteca che prendiamo sulla cosa che ci ha colpiti e che farebbe tanto bene ad appartenerci. Ora, per un sentimento di questa natura, il conte Gino era triste? Lo sospetto fortemente, ricordando che nella chiusa del suo monologo egli fece una spallata, come se volesse con quella scacciar l'uomo «non troppo zotico e materiale», a cui in una spensierata liberalità di discorso aveva concessa la fanciulla dei Guerri.
Dopo quella spallata, il giovinotto escì dalla stufa. Fiordispina, traversando le aiuole, veniva dalla sua parte; era già abbastanza vicina, e poteva entrare nella stufa, ed anche rasentarla soltanto; ma nell'uno e nell'altro caso avrebbe veduto l'ospite, ed egli avrebbe avuto l'aria di essere stato ad osservarla, a spiare i suoi passi. Escì, dunque, ed ella lo vide e gli sorrise.
—La signorina,—disse Gino, muovendo verso di lei, che si era fermata,—veniva a vedere i suoi fiori?
—No, veramente;—rispose ella;—andavo più in là. Non cerco fiori, porto foglie;—soggiunse, mostrando il suo grembiale, che teneva raccolto per i due capi.
—Ah!—esclamò Gino.—Un pasto mattutino! E dov'è la famigliuola che lo avrà dalle sue mani?
—Qui presso. Vuol vederla?
—Volentieri, se permette.
—Bene, venga allora con me.—
Gino s'inchinò e la seguì. Fiordispina andava leggiera lungo le invetriate della stufa. Sicuramente, se egli fosse rimasto là dentro, ella lo avrebbe veduto allora, poichè rivolse, passando, un'occhiata curiosa alle piramidi dei fiori.
—Ah, signorina!—disse Gino.—Che stupende eriche ho vedute or ora!
—Son belle davvero;—rispose Fiordispina.—Eriche del Capo di Buona
Speranza.
—Niente di meno!—esclamò il giovinotto.
—E delle prime che siano venute in Europa;—replicò Fiordispina.
—Ed io, abitante del piano,—disse Gino,—dovevo venire a trovarle fra i monti!
—Mah! Segno che c'è qualche cosa, anche tra i monti!—ribattè la fanciulla.
—Lo so, signorina, lo so, e non potrei dimenticarlo mai più. Ma parlavo delle eriche del Capo.
—Infatti,—ripigliò Fiordispina,—c'è una ragione naturalissima, che spiega la novità della cosa. Un amico della famiglia, che ha viaggiato molto, le ha portate in dono a mio padre.
—Buona Speranza!—mormorò Gino.—Buona Speranza!—
E cercava il filo di un madrigale; ma non gli venne, ed egli ci rinunziò, anche per il fatto che si era giunti davanti ad un porticato rustico, e che la fanciulla metteva il piede là dentro.
Erano le stalle. Perdonate il vocabolo,