In quel momento, col suo calice levato, Don Pietro Toschi, parroco delle Vaie, sembrava Melchisedec, il re sacerdote, quando offriva l'olocausto all'Altissimo sovra il poggio di Salem.
Gli astanti erano commossi; Gino Malatesti aveva le ciglia umide. Si levò tuttavia e rispose:
—L'augurio muove da un pensiero che non mi giunge nuovo in questa nobile casa, quantunque io ci sia ospite da poche ore soltanto. Ricorderò che il signor Francesco Guerri ha cortesemente raddrizzata una mia storta opinione, dicendomi: «Se sui monti è aria libera, come sfuggirne il contatto? come evitar la politica?» Mando un saluto a quest'aria libera, dove non sono o non si conoscono tiranni, ed auguro al mio paese di liberarsi dai suoi.
—E di non meritarne degli altri!—soggiunse Don Pietro.—Sia questa la seconda parte del voto!
—Certamente!—rispose Gino.—Le ricadute son gravi, e noi ne abbiamo fatta una triste esperienza. Speriamo che questa abbia insegnato qualche cosa agli afflitti di quindici secoli. Ed ora, o signori, permettete che io beva alla salute vostra, alla prosperità di questa casa ospitale, che ho trovata sul mio cammino, come un'oasi benedetta in mezzo al deserto. Signor Guerri,—conchiuse Gino, volgendo il discorso al suo ospite, ma tosto mandando gli occhi in giro, fino ai suoi figli,—poichè siamo nell'oasi, Dio prosperi le vostre giovani palme.—
Una stretta di mano, ma vigorosa, fu il discorso del re della montagna, in risposta alle parole affettuose di Gino Malatesti.
—Ella è un amico di casa, se ne ricordi.
—Ahimè!—disse Gino….—Che è ciò? Son sceso di grado?
—Perchè?—domandò il re della montagna, non intendendo lì per lì l'allusione del suo ospite.
—Perchè, signor Francesco mio, dianzi era stato adottato per figlio.
—Ah, sì;—rispose il vecchio, sorridendo;—quando ignoravamo ancora l'esser suo e non vedevamo in lei che la sua qualità d'ospite. Ma Lei ha voluto farsi conoscere, ed ora sappiamo il suo nome e il suo titolo.
—E per questo che Ella sa,—ribattè Gino Malatesti,—mi leva quello che mi aveva accordato? Io me ne lagno, e chiedo alla regale ospitalità delle Vaie di non mutar nulla dai suoi cominciamenti per me.
—Sia pur come vuole!—rispose il signor Francesco.—Non è sua, la casa? Prenda il posto che le piace, al focolare domestico dei Guerri.—
La sala era vasta, e mentre i commensali, alzatisi da tavola, stavano chiacchierando in un angolo, quattro fantesche, giovani e forti montanine, sparecchiarono in un batter d'occhio. Gino si avvide del cambiamento di scena, quando ogni cosa era fatta. Lasciato il signor Francesco a discorrere col vecchio parroco, si accostò allora a Fiordispina, e le chiese in grazia di far sentire qualche cosa sul pianoforte, se, come aveva immaginato, era lei la musicista di casa.
La bella figlia dei monti arrossì un pochettino, ma non istette a farsi pregare, come fanno le dilettanti della pianura; non si scusò neanche con la solita ragione del non ricordare che musica vecchia, ben sapendo che la vecchia è molto spesso la buona, e andò di buon grado a sedersi davanti al suo Erard, di cui il conte Gino sollevò prontamente il coperchio. Si fece silenzio nella comitiva, quando la fanciulla dei Guerri alzò la ribalta e posò le dita sulla tastiera, traendone i primi accordi, un po' timidi, ma precisi.
Il pianoforte è molesto nelle città, come tutte le cose delle quali si abusa. C'è un modo di far soffrire il mio amico Arnaldo Vassallo: basta suonargli la Stella confidente. Il pianoforte, strimpellato in ogni luogo e a tutte le ore del giorno, è una vera afflizione dell'umanità, e non si capisce come Mosè, che era profeta e poteva prevederlo, non lo abbia fatto figurare tra le piaghe d'Egitto. Ma questo istrumento, che è di tortura in città, può riescir di piacere in montibus altis, dove manca ogni musica, anche quella dei grilli, e dove infine, a mente fresca e serena, osservando le cose di questo mondo da una sommità ragguardevole, sareste capace di riconciliarvi col peggiore dei vostri nemici.
E le campane, del resto? Non succede lo stesso con le campane? Questo sacro ma uggioso bronzo, che co' suoi rintocchi medievali urta i nervi alle nostre generazioni ammalate d'emicrania, è piacevole in villa, dove il suono si diffonde all'aperto, risvegliando pensieri di festa; è giocondo, poi, è divino sulla vetta di un'Alpe, dove il suono vi giunge affievolito, ma sempre argentino all'orecchio, senza che pur vediate la chiesa e il campanile, perduti nella nebbia luminosa della valle sottoposta.
Ritornando al pianoforte, non sarà mai considerato nemico un istrumento come quello, se ne traggono suoni le dita di una bella ragazza. Il pensiero melodico sarà di Chopin, o di Mendelssohn; ma esso è passato nella mente di lei, dove vorreste regnar voi; ha vibrato per tutti i suoi nervi, prima di tradursi in quella pioggia di note.
Gino Malatesti, seduto accanto al piano, guardava. Guardava lei, si capisce, e ad un certo punto la fanciulla se ne avvide, si confuse, perdette il filo, e fece, come si dice volgarmente, un pasticcio.
—Ebbene, signorina?—diss'egli, vedendo che la suonatrice rimaneva in tronco.
—Ah, non so più!—mormorò Fiordispina.—Non sono avvezza….
—No, continui, la prego!—
E c'era tanto arder di preghiera in quelle poche parole, che Fiordispina ripigliò la suonata, andando fino alle ultime note senza fermarsi.
Poi venne Don Pietro, che volle un motivo del Verdi, il coro famoso dei Lombardi, e poi l'altro, non meno famoso, del Nabucco. Voi già capite dove s'andasse a finire: con gli inni del Quarantotto. Don Pietro Toschi era un quarantottista travestito.
Ora paiono cose dell'altro mondo; ma allora, nel periodo acuto dei dolori italiani, era così, come io vi racconto. Tutti li avevano in mente, gli inni del riscatto, e li canticchiavano tutti tra i denti. Anche quando si diceva male del Quarantotto, de' suoi canti, delle sue piume, delle sue coccarde e dei suoi discorsi in piazza, era facile sentire nell'amaro della critica il dolce dell'amore profondo, indimenticabile, eterno. Infine, si erano commessi errori su errori, ma si era vissuti, si era allargato il cuore alle divine speranze, e tutti i ceti, tutti gli uffici sociali, si erano fusi in quel sacro entusiasmo. Anche Don Pietro Toschi, si era riscaldato il cervello; aveva veduto molti giovani passare da Fiumalbo, per correre alla Guerra Santa, e aveva gridato: «bravi! che Iddio vi benedica!» Poi erano venute le disgrazie; ma la reazione, che aveva dilagato al piano, non si era potuta spingere fino a quei monti, dove i cuori erano uniti e le labbra chiuse. Qualche commissario, capitato lassù, era stato affogato nel lambrusco dell'ospitalità.—«Brava gente!—aveva dovuto riferire ai superiori.—Pensano ai fatti loro, amano il vin buono, e lo fanno bere agli amici.»
Così la tirannide si spegneva, o rimetteva della sua ferocia in quegli alpestri confini. Il monte Cimone non conosceva impiegati ducali, e i suoi echi potevano liberamente ripetere le note degli inni patriottici. Il conte Gino gustò molto quella musica. Conosceva quegli inni, uditi da giovinetto; sentì che erano ricordati in onor suo, e non si dolse davvero di una disgrazia che gli meritava quella dimostrazione di stima affettuosa. Gran serata, che egli non si aspettava certamente nel mattino, muovendo da Pievepelago! Il nostro giovanotto aveva il cuore pieno, riboccante di affetto, di poesia e di gloria.
Quella notte, nel letto ospitale dei Guerri, il conte Gino Malatesti sognò grandi cose. Il duca di Modena era fuggito; la sua città natale era libera, e giurava una lega con tutte le altre città italiane. Egli poi, montato a cavallo, inseguiva il tiranno, fuggente come Serse a Salamina, o come il Barbarossa a Legnano. Il conte Gino non era solo; molti venivano con lui, tra gli altri suo fratello Aminta. E al fianco gli galoppava Minerva galeata; ma l'elmo della Dea somigliava molto ad uno di seta, che il conte Gino aveva ammirato il giorno prima alle Vaie.
Capitolo IV.
La vita alle Vaie.
Venne il mattino, tiepido e fragrante mattino, uno di quelli che fanno così grato il muoversi, quando non si sta bene in un luogo, o si spera di trovar meglio, ma che per contro fanno così dolce il restare dove il soggiorno è piacevole. E il conte