L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066069841
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e misero, io ti avrei lasciato e ti lascerò forse tra poco pel tuo emulo Francesco di Francia; un imbecille coronato al par di te, ma più prodigo di quello che rapisce ai suoi popoli: — trattanto io mi compiaccio di tormentarti... ho qui in tasca sei congiunzioni di stelle tutte funeste per te... per ora va' lieto a prendere la corona; per oggi il tuo demonio ti scioglie la catena: — ungiti del crisma; poi, unto o no, con la corona o senza, tu non sarai meno il trastullo dei miei ozii fantastici.»

      Finalmente il santo padre gli cinse le chiome della corona imperiale. Cap. IV, pag. 102.

      Comparve alla subita chiamata il signore di Rodi, maggiordomo maggiore; il quale, semiaperta la porta, sporgeva il capo e parte del petto, non osando penetrare più oltre. Tosto che Carlo lo vide, lo interrogò dicendo:

      «Sire di Croy, qual'ora è ella?»

      «L'ora che piace a Vostra Maestà.»

      «No, Adriano», rispose blando Carlo, lusingato da cotesta sconcia piaggeria; «il sole non tramonta mai nei nostri regni, ma egli si mantiene pur sempre il re delle ore: se gli illustrissimi cardinali vennero, come spero, a incontrarci, dite loro che noi gli aspettiamo...»

      I cardinali Ridolfi o Salviati non istettero molto a presentarsi splendidi di cappe vermiglie; e tolto ambedue Carlo sotto le braccia, con molta solennità lo condussero all'aula reale del primo piano del palazzo.

      Quivi, parte delle pareti atterrando, avevano praticato certa capace apertura dove metteva capo un ponte magnifico, ornato di alloro, di mirto e con fronde verdissime di ogni ragione, decoroso per fasciature d'oro e per le armi alternate dell'imperatore e del pontefice, il quale percorrendo meglio che duecento braccia di cammino conduceva al tempio di San Petronio insensibilmente digradando; a mezzo il ponte, parata di splendidi arazzi, illuminata da mille torchi, sorgeva una cappella dedicata alla Beata Vergine fra le Torri.

      Uscendo dalla reggia per la indicata apertura, primo a toccare il ponte fu un drappello numerosissimo di giovanetti nobili, i quali e per la dovizia delle vesti e per la bellezza dei volti mettevano in tutti maraviglia e contento.

      Succedevano ai giovanetti, gentiluomini e cavalieri di varii ordini equestri, ognuno vestito alla sua foggia e decorato delle varie insegne dell'ordine a cui apparteneva; poi venivano baroni, conti, marchesi, duchi, principi del sacro romano impero e i primari ufficiali della corte di Carlo. Poco dopo, singolare a vedersi, compariva una immensa caterva di araldi abbigliati con svariatissime assise, spediti per assistere alla solennità della incoronazione non pure dai regni di Aragona, Navarra, Napoli, Sicilia, Granata, dalla Borgogna, dalla Germania e da molte principali provincie e castelli appartenenti a Carlo, ma ed anche da re e principi stranieri, come di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Polonia, Boemia, Austria, Savoia e altri infiniti. Passati questi, sopravvennero i maggiordomi della corte di Carlo portanti mazza di argento in segno della propria dignità; ai quali teneva dietro Adriano sire di Croy, signore di Rodi, maggiordomo maggiore, tenendo alzata la sua mazza di mole assai più grande delle altre. Immediatamente subentrano, coll'ordine che sarà per noi riferito, i principi cui incombeva l'ufficio di recare gli arnesi all'incoronamento necessarii. Primo di tutti l'illustrissimo principe Bonifacio Paleologo, marchese di Monferrato; egli veste una cappa di seta di color vermiglio, sovr'essa un manto di porpora; gran parte delle spalla e del petto gli cuopre una pelliccia di candidissimi armellini. Lasciamo senza descriverli i molti ornamenti d'oro e di gemme, che davano bagliore in chiunque li contemplava; ma non possiamo trattenerci dal rammemorare la corona marchesale, con ingegno meraviglioso lavorata, insigne per gemme d'inestimabile valore. Nella mano destra egli porta lo scettro d'oro. Viene secondo lo strenuissimo e magnificentissimo Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, non meno di gemme splendido e d'oro del Paleologo, che porta levato lo stocco imperiale d'infinita ricchezza; seguita terzo il valoroso principe Filippo dei duchi palatini del Reno e di Baviera, doviziosamente ornato della corona e della porpora ducali, il quale sostiene il mondo dorato. Finalmente succede il potentissimo Carlo, duca di Savoia, anch'egli vestito della porpora ducale e incoronato di una corona che fu pregiata meglio di cento mila ducati; a lui spettava portare con ambe le mani le due corone reale e imperiale. — Ecco Carlo: — la gioia soverchia lo tinge co' colori medesimi della paura; ha il volto pallido, le labbra pavonazze, gli occhi spenti: e' sembrava un condannato tratto a guastarsi. I cardinali diaconi, avvolti di ampio piviale, col capo coperto di mitria, gli stanno a' fianchi; il conte Enrico di Nassau gli sorregge dietro la coda del reale paludamento. Secondo l'ordine e prerogative loro seguono gli oratori di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Boemia, Polonia, del duca di Ferrara, Veneziani, Genovesi, Sanesi, Lucchesi, Fiorentini, e di altri non pochi. In ultimo luogo i consiglieri e i secretarii del consiglio di Cesare, separati dalle altre turbe sorvegnenti da una mano di cavalieri armati di corazze d'oro, e di mazze d'arme dal manico d'argento.

      Giunto Carlo nella sacra cappella, il cardinale di Tortosa, commesso a tale ufficio mediante un breve del sommo pontefice, il quale fu letto dal vescovo di Malta, cominciò a salmeggiare le preci opportune alla solennità: concluse le orazioni, gl'illustri conti di Nassau e di Lanoia, custodi del corpo di Cesare, presero a spogliarlo nel petto e per le spalle di ogni sua veste, sicchè gli nudarono tutto il braccio destro e gran parte del seno. Allora il cardinale di Tortosa, non senza aggiugnere altre efficacissime preghiere, gli unse le coste e tutto il braccio coll'olio sacrosanto dei catecumeni. Il reverendo padre Guglielmo Vandanesse, vescovo di Leon, le parti unte con candido bisso gli asciuga. Ciò fatto, tornano a vestirlo con la cappa reale di teletta d'argento, con un manto velloso di porpora svariata di oro e finalmente con una stola lunghissima, o vogliamo dire sarrocchino di bianchi armellini. Condotto a piè dell'altare dai cardinali Salviati e Ridolfi, il cardinale di Tortosa prima gli cinse la spada, la quale avendo Cesare tratta, tre volte vibrò nell'aria e tre declinò a terra, poi riposatala alquanto sul braccio sinistro tornò ad acconciarla nel fodero. Siffatta cerimonia mandata a fine, Carlo si prostra davanti l'altare, e il cardinale di Tortosa, sempre recitando orazioni adattate all'uopo, ora gli consegna lo scettro, ora il globo, ora finalmente gl'impone sul capo la corona di ferro, ad alta voce proclamandolo re di Lombardia.

      «Re di Lombardia!» gridarono i vicini; — «re di Lombardia!» risposero i lontani; e tanto e siffatto urlo riempì l'aere che pareva andassero subissati il cielo e la terra. I popoli alle parole aggiunsero il batter forte dei piedi, onde si levò un denso nuvolo di polvere, e la terra prese sembianza di vulcano che fuma: dai terrazzi, dai balconi, di sopra i tetti si vedevano donne, cavalieri, popolani, gente in somma di ogni maniera, sventolare pennoncelli di colore, fazzoletti bianchi, rami d'alloro o di mirto: — lungo i muri dei palazzi, dagli architravi delle porte e finestre, intorno ai fusti, su per i capitelli delle colonne si spiccavano figure a guisa di cariatidi viventi, le quali agitavano le braccia in segno di allegrezza.

      Uno spirito gentile, tra tanta congerie di uomini, i desiderii, la speranza e l'alito della vita aveva posto nell'immaginare la tribolata sua patria potente e felice; contemplando adesso tanto consenso di universale esultanza, dubitò di sè; per un momento i suoi terrori ebbe vani; onde di nuovo sollevò lo sguardo per ben conoscere se straniero veramente o Italiano fosse l'avventuroso coronato a re di Lombardia; e lo considerando pur troppo straniero, pensò tra sè: — Ecco, come gli Abderitani, oggi un popolo intero è diventato pazzo furioso; quando egli avrà ricuperato il bene dell'intelletto, si troverà schiavo. La mano che un'ora prima applaudiva al signore straniero, un'ora dopo sarà grave di catene: quando le vorrà rompere sarà chiamato ribelle: l'amore della libertà gli appresterà il patibolo in questo mondo e la dannazione nell'altro, così ordinando principi e preti seduti alla mensa dove si cibano i popoli; la lima che rode le catene delle nazioni volontariamente serve è fatta di sangue e di lacrime... Ahimè! quanta copia di pianto e di sangue per consumare cotesti ferri che esultando adesso cotesti sciagurati si adattano al collo! —

      E gemendo si coperse il volto per piangere lacrime solitarie sopra i destini della sua patria. O Luigi Alamanni, se tu ai tempi nostri avessi vissuto, sapresti come egualmente i popoli applaudano alla morte dei re! La fiera del popolo arrangola, sia che menino in alto Carlo Magno a coronargli la testa, sia che vi traggano Luigi Capeto per mozzargliela dal busto!

      Gli archibusieri alemanni e spagnuoli in numero di ottomila