“Sì,” rispose Adele, parlando francese e annuendo educatamente. Pochissimi parigini potevano sentire che la prima lingua di Adele non era la loro. Parlava con un leggero accento, secondo alcuni, ma per altri era difficile coglierlo. “Mi chiedevo se avesse un momento per parlare.”
“Non di nuovo riguardo agli affittuari, vero?” disse la proprietaria. “Te l’ho già detto prima: non posso dire niente.”
Adele, il sorriso fisso stampato in faccia, annuì educatamente. “Ricordo. No, niente affittuari. Il postino.”
Le sopracciglia della locatrice sembravano permanentemente inarcate. “Come ti ho detto, non ricordo. Sono passati anni.”
“Sì” disse Adele, “ma i locatori in Francia devono tenere dei registri, no? Per motivi fiscali.” Ecco il rischio. Ma Adele doveva seguire il suo istinto. Si voltò a guardare nell’appartamento, gli occhi che scrutavano l’arredamento ben disposto, i muri dipinti di fresco. Tutto nell’edificio, e nella sua ristrutturazione, suggeriva ordine.
“Lei non usa il computer per i suoi registri, vero?” chiese Adele.
La donna si accigliò. Si sistemò gli occhiali e scosse la testa coronata da capelli d’argento. “E anche se non lo facessi?”
Adele deglutì. “Ed è proprietaria di questo edificio da quanto? Dieci anni?”
“Faccio parte della famiglia da cinquanta. Sì, ne sono la proprietaria. Il mio ultimo marito dava una mano, ma faccio io la maggior parte del lavoro. E quindi?”
“Mi chiedevo se ci fossero delle dispute. Pacchi spariti, reclami. Oggetti fragili che sono andati rotti. In un edificio così grande, dev’esserci ogni tanto qualcuno con un problema.” Adele deglutì ancora. “Nello specifico, qualsiasi cosa sia successa una decina di anni fa o prima.”
La donna sbatté le palpebre dietro alle lenti dei suoi occhiali. “Ho una cartella per i reclami. Non so a quando risalgano. Ma quindi? Senza un mandato, non posso certo mostrarteli.”
Adele annuì, sentendo un brivido lungo la schiena. “Perché non vuole tradire i suoi affittuari, capisco. Ma cosa mi dice di affittuari che non abitano più qui? Gente che se n’è andata? Di sicuro non sarebbe un’invasione della privacy. Nello specifico… che mi dice di mia madre?” Ora toccò ad Adele scrutare la padrona di casa, aspettando con pazienza.
La donna arricciò il naso. “Non vuoi proprio mollare l’osso, eh?” La sua voce era roca per l’età, ma nei suoi occhi c’era un luccichio che spinse Adele a dire: “Se potessi, lo farei. Per favore, non mi interessano i locatari. Solo il postino. Che comunque sarebbe un’informazione pubblica, no?”
La donna si schiarì la gola. “Hai provato a chiamare la società?”
Adele sussultò. “Sì.”
“E?”
“Mi hanno detto che sono informazioni confidenziali,” aggiunse rapidamente. “Ma questo e dalla loro parte. Devono salvaguardare i registri dei dipendenti. Ma una disputa pubblica, un pacco andato perso… oppure,” si leccò le labbra, “posta manomessa… sarebbe scritto nel registro, no? Per favore, non glielo chiederei se non fosse importante. Elise Romei. Se la ricorda? Mia madre. Abitavamo qui una quindicina d’anni fa.”
Con sorpresa di Adele, la donna parve reagire al nome. Sgranò gli occhi e sbatté le palpebre dietro ai suoi occhiali. “Elisa Romei?” disse. “Certo che me la ricordo. Ricordo ancora la polizia, quando sono venuti a fare domande. Che tragedia. Hai detto che è tua madre?”
Adele annuì. “Non so se si ricorda. Ma in effetti vivevo qui anche io. Con mia madre. Avrei dovuto dirglielo quando ho firmato il contratto d’affitto, ma ho pensato che non fosse importante.”
“Sì? Però adesso lo è?”
Adele annuì, in silenzio, paziente. Guardò l’anziana donna. In qualche modo poteva notare qualcosa di familiare in quegli occhi intelligenti che la scrutavano da un volto raggrinzito. La donna guardava Adele a sua volta, studiandola, valutandola. Poi disse: “Non posso farti promesse. Ma darò un’occhiata. Lasciami qualche ora. Se trovo dei nomi su un modulo di reclamo per un postino, dove ci sia coinvolta tua madre, te lo faccio sapere. Ma di altri tenutari non posso. Ti va bene?”
Adele sorrise, pervasa da un’ondata di sollievo. “Sarebbe meraviglioso, grazie.”
La donna sorrise, le rughe attorno agli occhi che si facevano più evidenti, e annuì. Poi, lentamente, fece per chiudere la porta.
Adele fece un altro sospiro di sollievo e fissò la porta chiusa e dipinta da poco. Ora avrebbe solo dovuto aspettare. La locatrice aveva il suo numero.
Sperava solo che quella pista portasse i suoi frutti. Qualcuno scambiava biglietti. Scritti a mano. Buffo? Quell’ultima parte ancora non aveva senso, ma Adele sperava di poter capire tutto parlando con il postino. E se l’assassino era lui? Una persona che anni fa consegnava pacchi e posta avrebbe avuto l’alibi perfetto per intrufolarsi negli edifici e spiare le sue ignare vittime. Adele non ne era certa, ma si sentiva più vicina di prima alla soluzione.
Trattenne comunque l’emozione, non volendo sperare troppo, ed uscì dalla porta sul davanti, passando in strada. Si fermò un momento, rivolta verso la fermata dell’autobus di fronte a un bar. Sopra notò un cartello del limite di velocità. Chilometri, non miglia. Piccole differenze, ma piccole differenze importanti.
Adele sospirò. Doveva solo aspettare la risposta della padrona di casa.
CAPITOLO TRE
Entrare nel quartier generale del DGSI le parve diverso questa volta. Non più in qualità di corrispondente per l’Interpol, ma di nuovo come dipendente. Non una vera agente, ma comunque una risorsa. Investigatrice freelance. Almeno così l’aveva inquadrata il direttore Foucault.
Ma quando entrò dalle porte laterali, passando oltre la sicurezza, non si diresse verso l’ufficio del direttore. Andò invece dritta verso le scale e poi le scese. Era passata solo mezz’ora da quando aveva parlato con la padrona di casa. Aveva controllato il telefono mentre guidava l’auto fornitale dall’agenzia. Ma dopo essere quasi passata con il rosso, suscitando un coro di claxon infervorati tra le strade di Parigi, Adele aveva deciso che forse era meglio parcheggiare da qualche parte.
Imboccò le scale, godendosi la sensazione di movimento fisico. Uno dei motivi per cui Adele amava correre era che adorava il movimento in sé. Il modo in cui braccia e gambe si allungavano come pistoni. Le scale le donavano la stessa piacevole sensazione di vitalità, di controllo. In fondo, un lungo corridoio conduceva a vecchie stanze vuote e aperte. Lo scantinato del DGSI era stato abbandonato anni prima. Eppure lei sapeva che una persona ne faceva uso.
Per un momento le parve di sentire nell’aria il soffuso odore della fermentazione.
Bussò con le nocche alla seconda porta a sinistra, poi si guardò il polso. Erano quasi le nove di sera. Il che significava che la maggior parte dei dipendenti dell’agenzia se n’erano tornati a casa. E che lui sicuramente era ancora qui.
“Che c’è?” chiese una voce scontrosa dall’interno.
“John, sono io,” rispose Adele.
“Io chi,” chiese la voce con tono un po’ meno burbero.
Adele ruotò gli occhi e senza aspettare girò la maniglia e aprì la porta.
John era seduto sul suo divano, senza la maglietta, la testa appoggiata indietro e un bicchiere con ghiaccio e un liquido chiaro nella mano sinistra.
Aveva un occhio chiuso, come se l’avesse beccato nel mezzo di un pisolino, ma l’altro era aperto e la fissava. Aveva l’aspetto pigro e sornione di un gatto. La maglietta era appallottolata dietro alla testa. Adele sentì l’angolo della bocca curvarsi in un sorrisino mentre lo guardava.
Erano andati a nuotare insieme una volta, alla villa di Robert. Ma era buio allora. Adesso, nel