Ancora frastornata dal colloquio appena conclusosi e immersa nei suoi pensieri, Lucia neanche si era accorta che il Giudice era rientrato nella stanza, aspettando con pazienza che gli rivolgesse la parola. Sentì la frase uscire dalle proprie labbra come se fosse qualcun altro a parlare.
«Le accuse di stregoneria nei confronti di Mira sono cadute. Tocca a voi giudicarla. Siate clemente con lei!»
«La sua colpevolezza nell’essere stata responsabile della morte del Cardinale è ormai ampiamente dimostrata. E, per un assassino, la condanna è la morte. C’è poco da discutere. L’unica clemenza che posso riservarle è quella di un’esecuzione veloce e senza pubblico che assista. Mira verrà decapitata domattina all’alba. Non renderò pubblica la notizia. Sarà una questione tra lei e il boia.»
«L’unica cosa che chiedo è che non soffra», replicò Lucia, stringendosi nelle spalle.
«Un colpo netto, ben assestato, e la testa della giovane rotolerà sul selciato della Piazza della Morte. Mira non farà neanche in tempo a rendersi conto di non avere più la testa attaccata al collo.»
Lucia sentì le lacrime che stavano per prorompere dai suoi occhi, ma le ricacciò, avvertendo il loro sapore salato in gola. I suoi truci pensieri furono interrotti da un insolito clamore, che giungeva alle finestre dall’esterno, dalla Piazza del Palio e dalle vie limitrofe. Una folla di persone, provenienti dal contado, armate di forconi, coltelli e altri rudimentali attrezzi, stava entrando in città da Porta Valle e si dirigeva minacciosa verso la parte alta della città.
«A Palazzo. Raggiungiamo la Curia vescovile!»
«A morte il vicario del Cardinal Cesarini!»
«A morte il ladro, a morte l’usurpatore!»
Lucia, sentendo quelle frasi capì cosa stava per accadere, e capì che la situazione era davvero grave. Doveva far qualcosa per fermare quella gente e per evitare un inutile spargimento di sangue.
Una rivolta popolare, in questo momento, significherebbe la fine per questa città. Devo evitare che questi villani trasformino il centro in una carneficina. La popolazione è già stata decimata dalla peste, ci mancano solo le lotte intestine tra cittadini per ridurre Jesi al lumicino.
CAPITOLO 4
Il castello di Massignano era accogliente e sicuro, ma Andrea si era davvero stancato di addestrarsi contro il Mancino e i suoi sgherri. Non che la compagnia di questi uomini rudi gli dispiacesse. Spesso la sera beveva vino e giocava a dadi insieme a loro e più di una volta si era addormentato in preda ai fumi dell’alcol sul nudo pavimento, addosso agli altri sgherri. Certo, il Mancino, nonostante avesse perso da tempo l’uso del braccio destro, ci sapeva fare, e più di una volta gli aveva fatto volar via la spada dalle mani. Più passava il tempo e più i due diventavano amici, ma Andrea era un uomo d’azione, e un nobile per di più, e spesso si chiedeva quanto a lungo avesse dovuto sopportare quella semi prigionia, per far piacere al Duca di Montacuto, a dimostrazione della sua riconoscenza per averlo salvato dal patibolo. Da un giorno all’altro, Andrea aspettava che il Duca lo convocasse e lo facesse finalmente partire per il Montefeltro, dove avrebbe messo le sue qualità di condottiero nelle mani di un potente Signore. E già, non ne poteva proprio più di continuare a trascorrere il suo tempo in quella maniera assurda. Era come se il Duca ci facesse apposta a tenerlo in quella condizione di stallo, come se godesse del fatto di tenerlo inattivo il più a lungo possibile.
«Se il Duca non ha ancora organizzato il tuo trasferimento, si vede che c’è qualche ostacolo, materiale o politico che sia. Il mio padrone è un uomo accorto, anche se all’apparenza sembra una persona più rude di noi che lo serviamo. Ma quello che ha in più, rispetto a noi, è la capacità di far ragionare la sua mente», e il Mancino si toccò la tempia con il dito indice, a sottolineare questo suo concetto. «Vedrai, a tempo debito sarà tutto organizzato, nulla sarà lasciato al caso.»
«Gesualdo, anch’io so far funzionare bene la mia testa, e capisco solo che sono quasi quattro anni che sono qui, in questo castello, e le mie membra si stanno impigrendo. Se dovessi essere a tu per tu con un nemico, non so come andrebbe a finire… Forse non bene per me!»
Il Mancino, che aveva capito l’antifona, per non far precipitare il giovane Franciolini nella malinconia, balzò in piedi, afferrò la sua pesante spada con la sinistra e invitò l’amico al combattimento.
«Coraggio, allora, vediamo quanto sei arrugginito. Secondo me, quello che ti manca di più qua dentro è una donna. Inutile continuare a pensare alla tua Lucia, chissà mai se la rivedrai! Lascia fare a me e questa notte sarai in compagnia. Un uomo ha bisogno di sfogare non solo i muscoli delle braccia e delle gambe. Conosco un paio di servette che, al bisogno, sanno quello che fare per soddisfare un muscolo che da troppo tempo è in letargo! Basta elargirgli alla fine un paio di monete d’argento, ed è fatta», e scoppiò in una grassa risata.
Andrea, colpito nel vivo, impugnò a sua volta la spada e la incrociò con violenza con quella del Mancino.
«Brutto bastardo che non sei altro, per chi mi hai preso? Per uno che va a sgualdrine? Sono fedele alla mia amata, le ho giurato fedeltà che ero quasi in punto di morte. Lei ha curato le mie ferite e io la dovrei ricompensare con un tradimento?»
Gesualdo si sbilanciò indietro, mantenendosi ben saldo sulle gambe, e fece sì che la spada del giovane si abbattesse al suolo con fragore.
«Eh, l’amore gioca brutti scherzi! Sì, oggi sei proprio distratto, combatti molto male, amico mio. Sei fortunato di avere me di fronte e non un nemico, altrimenti saresti già spacciato.»
Andrea alzò di nuovo la spada e abbatté un nuovo fendente contro quella del Mancino, che la fece roteare, provocando lo sbilanciamento e la caduta a terra del suo avversario. In un attimo gli fu sopra, il filo della lama poggiato minaccioso al collo del giovane. Quest’ultimo, con un agile balzo all’indietro, si liberò della stretta e con un calcio fece volar via la spada dalle mani del Mancino. Poi si riappropriò della sua e ripartì all’attacco. Questa volta era Gesualdo in posizione di inferiorità. Gli sgherri che assistevano non erano nuovi alle scaramucce tra i due e scommettevano chi sull’uno chi sull’altro. In breve la ressa diventò incontrollabile: i due continuavano a battersi, inveendo l’uno contro l’altro, a volte anche gridando, mentre gli astanti continuavano a scommettere somme sempre più alte e incitavano alla lotta. Fino a che, all’improvviso, tutti si ammutolirono. Andrea e Gesualdo si resero conto che c’era qualcosa che non andava e smisero di combattere. Sollevarono la testa e si ritrovarono faccia a faccia con il Duca Berengario di Montacuto.
«Smettetela di giocare, voi due, e andatevi a rendere presentabili. Stasera avrete l’onore di cenare seduti alla mia tavola», sentenziò con voce autoritaria. Poi si girò sui tacchi e sparì lungo il corridoio, nella direzione da cui era venuto.
Di rado, nel corso di quei lunghi anni, Andrea era entrato nell’ala del castello dove risiedeva il Signore, il Duca di Montacuto. Erano stanze molto più ricche, sia in mobilia che in decorazioni, rispetto a quelle che era abituato a frequentare, nella parte della Rocca dove soggiornavano soldati, armigeri e servi, e dove lui a fatica aveva conquistato una camera con un pagliericcio, grazie all’intercessione di Gesualdo con il luogotenente del Duca.
Si contavano poi sulle dita delle mani le volte che Andrea si era trovato al cospetto del Duca. Va bene che quest’ultimo era spesso lontano dal Castello, in quanto passava molto tempo in Ancona, sia per tenere sotto controllo gli affari amministrativi della città, ora che aveva spodestato