Finalmente, dopo oltre un mese di fumate nere, il 9 gennaio 1522 dal camino uscì la fumata bianca. Il Camerlengo tirò il sospiro di sollievo e si precipitò all’interno dell’ala in cui si svolgeva il conclave per assolvere ai suoi doveri di rito. Gli sembrava che fosse passata un’eternità dal giorno in cui era morto Leone X. Lo aveva trovato proprio lui, riverso sul tavolo in cui stava mangiando. Aveva chiamato le guardie e aveva fatto ricomporre il corpo nel letto, poi aveva picchiato con un martelletto il cranio del Santo Padre, per assicurarsi che il corpo non rispondesse più con alcun riflesso, né volontario, né involontario che fosse. Quando gli arti, gambe e braccia, furono diventati rigidi, aveva provveduto a chiamare tre volte il Papa con il nome di battesimo: «Giovanni… Giovanni… Giovanni!». Non avendo ottenuto risposta, aveva provveduto a dichiarare ufficialmente morto il Santo Padre. Aveva fatto allestire la camera ardente e aveva organizzato il rito funebre, al termine del quale Papa Leone X avrebbe raggiunto i suoi predecessori, nei sotterranei della basilica eretta sopra la tomba di San Pietro. Dopo di che aveva convocato il Conclave, ma si era accorto che la sua posizione era ritenuta molto scomoda da parte di una certa fazione dei partecipanti al Conclave, quelli più vicini alla famiglia De’ Medici. Lui era stato sempre il Cardinale più vicino al Papa, ma notoriamente faceva parte della stessa famiglia di Giovan Battista Cybo, che aveva occupato il soglio pontificio fino al 1492 col nome di Innocenzo VIII. Le male lingue, dal momento che era lui responsabile della sicurezza del Papa e tutti i cibi che arrivavano sulla tavola del Santo Padre dovevano essere da lui approvati, avevano ventilato che lui stesso potesse essere il responsabile dell’inaspettata e prematura morte di Leone X. Poteva infatti avere benissimo avvelenato gli alimenti, con l’intento di aspirare al pontificato e riportare di nuovo alla massima carica un appartenente alla famiglia genovese. Innocenzo sapeva benissimo di essere innocente e di non aver perpetrato alcuna congiura ai danni del suo beneamato Papa. Giovanni De’ Medici soffriva di cuore fin da quando era ragazzo e, proprio per questo non si era dedicato mai alle armi. Quindi nessuno lo aveva avvelenato, aveva avuto un collasso ed era morto di morte naturale, anche se improvvisa. Il fatto di autonominarsi Camerlengo aveva in parte allontanato i sospetti da lui, in quanto non sarebbe stato eleggibile come Papa, ma non del tutto. Giulio De’ Medici e altri tre o quattro Cardinali continuavano a guardarlo in cagnesco, ma lui rispondeva a quelle provocazioni con la migliore delle difese: il silenzio. Certo, quei tre mesi non erano stati facili, ma era riuscito a non porgere mai il fianco ai suoi nemici. Non una parola era mai uscita dalla sua bocca, che accusasse il Medici di invidia o di arrivismo. Aveva continuato a fare il suo dovere come nulla fosse. Ma ora, mentre saliva le scale col fiato in gola, il timore che il nuovo eletto fosse proprio il Medici lo attanagliava. Di certo, questi avrebbe voluto in qualche modo vendicare la morte prematura del familiare. E già Innocenzo si immaginava con la testa appoggiata a un ceppo in attesa della scure che, con un colpo secco, l’avrebbe fatta volare via dal resto del suo corpo. Quando aprì la busta dove era scritto il nome del nuovo pontefice, tirò il secondo sospiro di sollievo nel giro di pochi minuti.
Il Camerlengo si affacciò al terrazzo che dava sul piazzale sottostante e gridò, con quanto fiato aveva in gola, rivolto ai fedeli assiepati in curiosa attesa:
« Nuntio vobis gaudium magnum! Habemus Papam, eminentissimum et reverendissimum dominum Adrianus Florentz, qui sibi imposuit nomen Adrianus sextus. »
Voci e acclamazioni si levarono dalla Piazza sottostante, in attesa che il nuovo Papa si facesse vedere e parlasse alla folla dei fedeli. Mentre Innocenzo aiutava il nuovo Papa a vestire i paramenti sacri di rito, nella sua mente i pensieri scorrevano veloci. Questo Adriano VI non durerà molto, prima che qualcuno della famiglia De’ Medici ci metta mano. Ma che duri un mese, un anno o un secolo, nessuno potrà più accusare me. Da domani Innocenzo Cybo se ne ritorna a Genova.
Come tutti gli altri, anche il Cardinale Alessandro Cesarini fece i bagagli per ritornare nella sua sede, a Orvieto. Giuntovi il quattro marzo dell’anno del Signore 1522, lì per lì rimase un po’ interdetto dal fatto che la sua sede vescovile fosse stata arbitrariamente occupata dal suo collega, ma all’udire la proposta di quest’ultimo quasi non riusciva a credere alle sue orecchie. Lui che avrebbe fatto carte false per avere la Curia Vescovile di Jesi, lasciata vacante dal Cardinal Baldeschi, se la vedeva offrire su un piatto d’argento da chi ne era stato prescelto come titolare, solo perché legato ai luoghi in cui aveva trascorso l’infanzia. Incredibile, ma vero! Un’occasione di certo da non lasciarsi scappare. Suggellato il patto con lo Jacobacci, Alessandro Cesarini, desideroso comunque di riposarsi per qualche giorno, inviò un messaggero a Jesi, per preannunciare il suo arrivo e il suo insediamento alle autorità di quella città. Il messaggero giunse a Jesi solo il 12 Marzo, e il Consiglio Generale della Città, riunito per l’occasione nella Sala Maggiore del Palazzo del Governo e presieduto dal nobile Fiorano Santoni, prese atto della nomina – anche se il Cardinal Jacobacci sarebbe stato più gradito – e deliberò anche di riconoscere al Cesarini un vitalizio di 25 fiorini al mese. Tutto questo quando già il Cardinale era alle porte della città, per cui non si fece neanche in tempo a preparare una degna accoglienza al nuovo Vescovo, che si trovò a entrare in una città del tutto indifferente al suo arrivo. Il Cesarini non rimase deluso solo dell’accoglienza, ma anche e soprattutto del fatto di trovare città e contado in condizioni ben diverse da quello che si aspettava. Dopo il sacco subito dalla città nel 1517, erano seguiti alcuni anni di malgoverno da parte del Cardinal Baldeschi, che avevano ridotto la zona a condizioni di miseria mai viste a memoria d’uomo. Oltre ai danni e alle angherie che erano stati portati dagli eserciti invasori, la peste era tornata come un incubo a terrorizzare la popolazione. E così il Cesarini, che aveva ancora molti interessi nella zona di Anagni e Orvieto, ben presto iniziò a passare gran parte del suo tempo lontano da Jesi, adducendo come scusa i suoi assillanti impegni ecclesiastici presso la sede Papale , e lasciando in sua vece aspri vicegovernatori, che sapevano solo essere crudeli e tiranni nei confronti della popolazione.
Lucia si era data da fare, e non poco, per portare conforto agli ammalati di peste. Il morbo era giunto a Jesi con una cassa di canapa, proveniente dai mercati dell’oriente, acquistata a prezzo stracciato al porto di Ancona da una famiglia di “cordari” Jesini. Alcune famiglie residenti nel borgo di Sant’Alò erano rinomate da tempo immemorabile per l’abilità e la cura con cui fabbricavano corde. Avevano un sistema tutto loro per ottenere dalla canapa grezza cordini e corde di tutte le lunghezze e calibri, che venivano vendute al mercato a prezzi concorrenziali rispetto a quelle fabbricate in altre zone d’Italia. Non appena Berardo Prosperi, il capofamiglia, aprì la cassa per verificare la qualità della canapa acquistata da suo figlio e suo nipote, fu aggredito dalle pulci, che finalmente libere cercarono il loro pasto di sangue, a scapito di molti componenti della comunità dei borgatari. Le case dei cordari erano costruzioni basse, che formavano una fila unica, una attaccata all’altra, al bordo di un ampio piazzale, detto “prato”, dove quegli artigiani lavoravano, essenzialmente all’aperto. Avevano infatti bisogno di ampi spazi, dove allungare le fibre di canapa e intrecciarle fino a farle diventare corde, con l’aiuto di strani marchingegni dall’aspetto di ruote.
Lì per lì nessuno fece caso alle punture degli insetti, ci si era abituati, ma dopo qualche giorno Berardo e alcuni altri uomini e donne della borgata caddero malati, in preda alla febbre alta, e con bubboni in varie parti del corpo, chi sulla schiena, chi dietro al collo, chi sulla pancia. Il morbo aveva fatto presto a diffondersi da una casa all’altra, tutte attaccate come erano, e poi si era propagato verso la campagna. Ma ben presto era arrivato a colpire anche famiglie residenti in città, all’interno della cinta muraria.
Lucia aveva appreso a suo tempo dalla nonna come cercare di curare i malati di peste. Aveva sentito dire che ad Ancona, dove il morbo si era diffuso in maniera esponenziale, chi se lo poteva permettere si faceva ricoverare e curare nel “Lazzaretto”. Ma secondo lei non era un’idea molto saggia concentrare le persone ammalate in un unico luogo. Era meglio tenere isolato il malato nella sua casa, per evitare che contagiasse a sua volta persone sane, prendendo le opportune precauzioni ci si doveva avvicinare a lui. Quando doveva entrare nella stanza di un ammalato, Lucia si copriva ben bene con vestiti pesanti, ma solo dopo essersi cosparsa tutto il corpo con un unguento a base di citronella, basilico, menta, mentrasto e timo. L’odore che emanava era