«Se tu non volessi seguirmi, sì. Il lavoro è lavoro, e il mio lo ritengo molto appassionante. Certo, non che smetterei di amarti, ma non rinuncerei comunque ai miei impegni.»
Fingendo di fare un po’ l’offesa, Lucia ritirò le mani, cercò il pacchetto delle sigarette e ne accese una.
«Senza magari disdegnare qualche avventura amorosa esotica, eh? Mmmm… Mai fidarsi degli uomini: sono traditori per natura.»
Lucia aspirò a lungo dalla sigaretta e sbuffò il fumo verso di lui, che gliela prese via dalle mani e fece a sua volta una tirata.
«Oh, non io. Sono un uomo fedele!»
«Questa affermazione è tutta da valutare. Hai trent’anni suonati e fai l’amore come una persona “esperta della materia”. Non so niente della tua vita precedente. Chissà quante donne hai avuto prima di me!»
Come per non invischiarsi in un discorso che non volesse affrontare per nessun motivo al mondo, Andrea cambiò argomento.
«Ma veniamo al tuo lavoro, piuttosto. Che cosa hai trovato di così interessante nell’umile biblioteca di questa dimora, da farti stare in piedi fino alle due di notte e ritrovarti qui alle sette della mattina che già hai ripreso la lettura?»
In attesa di una risposta, Andrea schiacciò nel posacenere la sigaretta consumata solo per metà. Lucia, non soddisfatta della dose di nicotina assunta, tirò fuori dall’astuccio la sigaretta elettronica e agì sul tasto d’accensione. Il vapore sbuffato dalla giovane si dileguò nell’aria della cucina.
«Questi documenti si riferiscono alla storia di questa città nei primi decenni del XVI secolo, e sono interessanti, perché descrivono gli eventi succeduti alla morte del Cardinal Baldeschi, in maniera diversa da come li conoscevo e da come sono descritti nei testi ufficiali della storia di Jesi. È molto strano come la copia de “La Storia di Jesi” conservata in questo edificio, che dovrebbe essere gemella delle altre due rinvenute nel Palazzo Baldeschi–Balleani e nella Biblioteca Petrucciana, non abbia le pagine strappate, ma sia integra. Ma quello che è più interessante è che alcuni particolari sono riportati in maniera difforme rispetto agli altri testi che ho avuto modo di avere sotto mano.»
«Ad esempio?», chiese Andrea incuriosito.
«Ad esempio, io ero convinta che un alto prelato della famiglia Ghislieri fosse succeduto alla carica Vescovile al Cardinale mio avo. Invece sembra che le cose fossero andate ben diversamente e il Ghislieri sia giunto a ricoprire questa carica solo dopo un certo periodo di tempo. Pensavo che mai la mia antenata Lucia Baldeschi avrebbe assunto la carica di Capitano del Popolo e invece qui viene riportato che dal 1522, per un certo periodo, il governo della città fu portato avanti, anche se in collaborazione con la nobile casta jesina, da una donna, che addirittura aveva scongiurato una ribellione popolare, riappacificando gli animi infiammati con la sua sensibilità femminile. Molto strano per quei tempi!»
«Credo che di certe notizie si debba valutate la veridicità. Non è infrequente che in documenti di epoche remote siano riportati clamorosi falsi storici. E poi spesso chi redigeva queste cronache tendeva a mescolare realtà e leggende in maniera davvero facile. Su, vestiamoci e usciamo a fare quattro passi per il centro storico, prima che l’aria, là fuori, si scaldi troppo. A volte le pietre rivelano molto più dei libri, se uno le sa interpretare. Lasciati guidare da un archeologo, e non te ne pentirai!»
Convinta che Andrea sapesse molte più cose di quelle che nel giro di alcuni mesi le aveva rivelato, corse in bagno, diede una botta di fon ai capelli per finirli di asciugare, si truccò, si infilò una maglietta e un paio di jeans e si ripresentò in cucina pronta per uscire. Sentì l’occhiata compiaciuta di Andrea su di lei, rendendosi conto che, non essendosi affatto preoccupata di indossare un reggiseno, la forma dei suoi capezzoli era distintamente stampata sulla t-shirt. Ma chi se ne importava. Se anche Andrea fosse stato geloso delle sue grazie, meglio così: uomo geloso, uomo innamorato!
Mentre risalivano, mano nella mano, le scalette di Costa Baldassini, godendo dell’aria ancor fresca delle prime ore del mattino, Lucia lasciava che le pietre delle antiche costruzioni le sussurrassero storie vecchie di secoli, rimuginando nella sua testa quanto aveva letto la sera precedente.
MISERIA
Le scorrerie degli eserciti invasori non erano terminate e, tra il 1520 e il 1521 sostarono dalle nostre parti gli uomini di Giovanni De’ Medici prima e quelli di Leone X poi. Erano, questi ultimi, Svizzeri assoldati dal Papa, e che si erano trattenuti per ventisei giorni, recando danni infiniti alla città e al contado.
Oltre ai danni e alle angherie, la peste era tornata come un incubo a terrorizzare la popolazione. In un Consiglio generale del 6 dicembre 1522, trattandosi di provvedere sopra un minacciato passaggio di 2.500 spagnoli militanti al
soldo del Papa, si deliberò di fare il possibile per allontanarli, anche con qualche dono, e se volessero venire ad ogni modo, di riceverli fuori della città, essendo risaputo che essi portavano con loro il contagio. Tutta l’Italia, del resto, in quegli anni era ridotta nelle più misere condizioni. Alle rovine e carneficine causate dalle battaglie e dalle scorrerie degli eserciti stranieri, si aggiungevano le alluvioni e la peste, che continuava ovunque a fare le sue vittime. Nonostante l’opera preventiva dei cittadini, il terribile morbo, secondo alcuni, in particolare secondo lo storico Antonio Gianandrea, sarebbe giunto a Jesi per via d’Ancona, in certe balle di corde. Dicesi anche che detta peste venne per giusto giudizio di Dio, perché l’anno avanti alcuni giovani, trovando un corpo morto di un forestiero in casa Caldora, tutto intero, per gioco, lo portarono nei giorni di Carnevale in maschera per la città e, non essendo stati di ciò puniti, ma piuttosto da tutto il popolo aiutati, in sogno apparve loro l’immagine di un uomo nero che li avvertiva che poco appresso sarebbero morti di peste. Sta di fatto che la peste gettò la popolazione nella miseria più nera.
Già l’anno prima una moltitudine di locuste avevano quasi mangiato tutte le biade, apportando una grandissima fame e tante altre miserie, che fu opinione universale che, se il Magistrato non avesse aiutato molti col denaro pubblico e ordinato che si premiassero quelli che ammazzavano una certa quantità di locuste, l’anno seguente una buona parte della cittadinanza sarebbe morta di fame. Fu tale la miseria che i più poveri, non avendo di che sfamarsi, erano costretti a cibarsi di erbe, come le bestie, e di qualche quantità di semola.
Intanto i due giovani, quasi col fiatone, erano giunti in cima alla salita, avevano percorso un breve tratto di Via Roccabella ed erano sbucati in Piazza Colocci, illuminata dal sole di una splendida giornata di luglio, fermandosi ad ammirare la facciata del Palazzo del Governo, dai più conosciuto come Palazzo della Signoria.
«Non capisco perché si insista a chiamarlo Palazzo della Signoria, quando a Jesi una vera e propria Signoria non è mai esistita», esordì Lucia rivolta al suo erudito compagno, sperando nel suo solito competente intervento.
«E in effetti Jesi era una Repubblica, come vediamo riportato in diverse scritte sulle icone delle pareti di questo palazzo. Una repubblica comunque assoggettata al più alto potere papale, che estendeva fin qui le sue ali protettive: “Res Publica Aesina, Libertas ecclesiastica - Alexander VI pontifex maximus”. Questo per ricordare a tutti che lo stesso Papa Alessandro VI, nell’anno 1500, inaugurò e benedì questo palazzo, opera dell’architetto Francesco di Giorgio Martini, concedendo alla città di Jesi di continuare a essere una repubblica indipendente e di continuare a poter fregiare il simbolo della città, il leone rampante, con la corona regale, purché fosse comunque ossequiosa del potere della Chiesa, e nel contempo accettasse l’importante presenza di un legato pontificio.»
«Interessante. Quindi è evidente che il nome Palazzo della Signoria sia legato all’architetto che lo