Sancho voltò le spalle a Jimeno. Rinunciò al tavolo decidendo di salire su uno sgabello, e Jimeno non poté evitarlo. Per qualche ragione che il bargello non riusciva a capire, il Nero sapeva suscitare una certa simpatia intorno a sé.
La miseria in cui versava e la sua sfortuna lo avevano reso una persona da compatire. La sua sagoma sottile si erse in modo da poter essere visto sopra le teste degli altri; era un uomo di bassa statura ed emaciato. Aveva la pelle scura a causa dello strato di carbone che mascherava il suo vero colore. Jimeno non poteva vederlo in faccia ma immaginava che stesse esaminando i visi dei presenti con quei suoi strani occhi. Gli occhi ossuti di un teschio in preda all'agitazione. Tossiva ininterrottamente. I capelli lunghi e scoloriti e la barba incolta gli conferivano un aspetto miserabile.
Indossava pesanti scarpe invernali, confezionate da lui stesso, ma il resto del suo abbigliamento testimoniava l'estrema miseria in cui viveva. La camicia e le brache avevano più rammendi che stoffa originale e per quanto lavasse i suoi vestiti, le macchie dovute all'usura non si potevano pulire. Erano inoltre abiti troppo grandi per il suo corpo smagrito, e nessuno in paese si sarebbe stupito se li avesse rubati a un morto; era in effetti una delle voci che circolava su di lui, insieme a molte altre.
Jimeno si infuriò vedendo che in taverna regnava il silenzio senza che Sancho avesse dovuto chiederlo. Il dannato carbonaio voleva sempre esprimere la sua opinione, sapendo che sarebbe stato ascoltato: ma il risultato avrebbe potuto rivelarsi fatale. Jimeno fu costretto a pensare in fretta come poter ribattere efficacemente alle sue parole, in caso contrario il carbonaio sarebbe riuscito a far dimenticare immediatamente ai compaesani il coraggio che Jimeno aveva appena suscitato in loro.
Maledetto Nero!
Il carbonaio parlò.
"Non temo di unirmi alla lotta con i miei compaesani. Però mi piacerebbe capire con certezza quale sia la minaccia che dovremo affrontare. Il bargello non vi ha detto tutta la verità" annunciò il Nero. "Forse non ha voluto spaventarvi spiegandovi quello che sta succedendo veramente, ma prima o poi lo scoprirete e a me sembra giusto che lo sappiate tutti.
Abbiamo dovuto metterci in tre per sconfiggere uno solo di loro. E ce l'abbiamo fatta solo perché l'altro brigante è rimasto a guardare".
Quelle affermazioni sì che provocarono una gran confusione. Per qualche minuto fu impossibile ristabilire il silenzio e alcuni, tra i quali vi erano uomini forti come quelli che cercava Jimeno, persero la speranza.
"Jimeno, è vero?"
"In tutti i gruppi di guerrieri c'è sempre qualche valoroso e qualche codardo" disse loro. Quel dannato Sancho stava minando la fiducia dei loro compaesani con storielle dell'orrore buone per i bambini. Il bargello pensava che gli albari non fossero pericolosi neanche la metà di quanto pensavano gli altri. "Quello coraggioso è morto ieri. Quante possibilità ci sono che gli altri albari siano tutti come quello che è morto e non come quello che è fuggito? Nessuna! Non sono fantasmi, né mostri, né spettri maligni. Sono semplici briganti sfuggiti alla giustizia per troppo tempo. Non bisogna trasformare in diluvio delle semplici gocce d'acqua. Non lasciate che Sancho vi inondi di paura. Tutta la fama di cui godono gli albari non è che una leggenda, e solo i bambini si spaventano per le storie di mostri".
Jimeno rifletté che forse chiamarli bambini non era stata un'ottima idea, ma almeno era riuscito a mitigare le loro preoccupazioni circa i briganti. Strinse i denti mentre pensava a cos'altro dire.
Il Negro lo anticipò.
"Come potete dire così, dopo quello che è successo durante gli ultimi inverni?" disse a voce bassa, come se gli stesse rimproverando un comportamento indegno. "Che cosa credete che ci renda diversi dagli altri villaggi?"
"Io!" rispose immediatamente il bargello. "Io sono qui, con voi. Gli altri
villaggi erano indifesi e sono stati devastati, ma qui ci sono io per fare fronte al pericolo. Ciò che ho detto prima non è cambiato: voglio uomini disposti ad opporsi a quei briganti. Che siano albari o no".
"Non sono briganti!" gridò un vecchio. "Sono demoni!"
"Io ne ho ucciso uno con la mia spada" gli ricordò. "Come demone non era un gran che".
Accompagnò le sue parole con dei colpetti sull'impugnatura della spada.
Anche la cotta di maglia che gli ricopriva il braccio tintinnò. Voleva dimostrare loro che per quanto potessero sembrare terribili, gli albari non erano diversi da qualunque altro uomo. Tutti morivano.
"Voi siete un guerriero, noi lavoriamo la terra" disse Sancho. Il bargello si concesse un mezzo sorriso. Il Nero coltivava la terra ma non era la sua terra. Da anni ormai quei campi erano di proprietà del bargello. Sottratti al padre del Nero, condannato per omicidio. Forse Jimeno sarebbe riuscito a sfruttare quel fatto per mettere fine a quella discussione spiacevole. "Non abbiamo la vostra abilità nel combattimento e se affrontassimo uno di loro le conseguenze sarebbero molto peggiori di questi lividi".
Il Nero indicò il collo di Jimeno. Con quel dito ossuto di chi non mangiava, né tanto né poco. Sancho era costretto a fare una quantità di mestieri per riuscire a ricavarne qualcosa. Quando non preparava il carbone coltivava terre altrui, in cambio di un pugno di fagioli; rammendava calzature in cambio di un paio di cespi di lattuga, se era fortunato; faceva qualunque cosa gli impedisse di morire di fame. Erano anni che il suo corpo non era che pelle e ossa, eppure era ancora tra i vivi per dare fastidio a Jimeno, costretto a fare i conti con la sua imbarazzante presenza.
Alcuni dei compaesani si stavano convincendo che combattere fosse inutile. Jimeno sbuffò per la disperazione. Malgrado fosse evidente che erano minacciati, molti si rifiutavano di vedere che il pericolo era reale e che prima o poi avrebbero dovuto farvi fronte. Volenti o nolenti.
"Noi non siamo guerrieri" dicevano.
"Possiedono spade e cavalli".
"Moriremo".
Jimeno colpì il tavolo con tale forza che temette si potesse spezzare sotto i suoi piedi. Tutte quelle chiacchiere gli stavano facendo bollire il sangue più del calore umano che quegli animali spaventati sprigionavano.
"Allora darete la vostra vita, se sarà necessario, per proteggere i vostri cari.
E lo stesso farò io" assicurò. "Albari o no, quei ladri non abbandoneranno queste terre finché non avranno preso tutte le pecore, le galline e le vacche che vorranno. E se le nascondessimo in paese, brucerebbero i campi.
Assalteranno i nostri granai e se qualcuno cercherà di impedirglielo senza nessuno a coprirgli le spalle, lo passeranno a fil di spada. E così, uno alla volta molti di noi cadranno. Non vedete? Fare a si-salvi-chi-può non funzionerà. Dobbiamo combattere!"
"Se decidiamo di combattere, moriremo tutti" replicò Sancho. "Quel che dobbiamo fare è chiedere aiuto al re. È ora che i soldati si decidano a fare il loro lavoro. Dobbiamo mandare una lettera al sovrano, ecco cosa dobbiamo fare" aggiunse. "Guillén potrebbe scriverla".
Era veramente troppo. Non poteva più sopportare tutte quelle lamentele.
"Il re non darà alcuna importanza alla lettera di un pastore" spiegò Jimeno.
Guillén chinò la testa a quelle parole. "Ha ben altro da fare, come occuparsi degli Ordini Militari e riorganizzare il regno che gli ha lasciato suo fratello Alfonso. L'unico aiuto che avremo sarà quello che noi stessi potremo concederci. Solo noi!" Si girò verso il carbonaio. "E tu, Sancho, sei il meno indicato per attribuire responsabilità ad altri. A tuo padre non è servito a niente, e non servirà a te. Impara e insegnalo a tuo figlio".
Sulla taverna piombò un silenzio mortale. Quello era un discorso molto serio. Jimeno sapeva bene che nessuno nominava mai il padre del Nero, per rispetto nei confronti del figlio e di sua madre.
Guillén si avvicinò a suo cognato.
"Jimeno" sussurrò, "non c'è bisogno di tirare in ballo i brutti ricordi. Il
passato è passato".
"Non