Quando il telefono di Rhodes squillò mentre aspettavano il conto, entrambe sussultarono. Avevano immaginato entrambe che fosse Johnson, e Chloe cercò di non sentirsi offesa dal fatto che avesse scelto di contattare Rhodes invece di lei.
Chloe ascoltò attentamente, cercando di comportarsi come se non fosse davvero interessata a ciò che veniva detto. Ma ascoltando quello che diceva Rhodes nella brevissima telefonata, a Chloe bastò. Quando Rhodes terminò la chiamata, l'espressione sul suo volto lo confermò. Era un'espressione di leggera irritazione e una sorta di lieve sollievo.
"Vuole che andiamo a parlare con la polizia di Colin prima di andarcene e tornare a casa", disse Rhodes. "E se vuoi saperlo, in questo modo dovremmo tornare a Washington giusto in tempo per andare a berci qualcosa prima di tornare a casa".
Pagarono il conto e tornarono al Dipartimento di Polizia di Colin. Sulla via del ritorno verso Colin, passarono proprio accanto al marciapiede dove Viktor Bjurman era stato ucciso. Senza auto di pattuglia o nastro adesivo sulla scena del crimine per delimitare la zona, sembrava un angolo normale di una qualunque cittadina americana. C'era qualcosa in questo che turbava Chloe, sapendo che in quell'angolo c'erano risposte che forse non sarebbero mai state trovate: risposte che, da ora in poi, sarebbero rimaste per sempre fuori dalla sua portata.
CAPITOLO SETTE
Danielle era in bilico sul sottilissimo confine tra l'essere alticcia e completamente ubriaca quando qualcuno bussò alla sua porta. Stava bevendo per piantare un chiodo in quel capitolo della sua vita, per tenerlo chiuso come un forziere sepolto in fondo all'oceano. Non aveva potuto tornare al lavoro la sera prima, né quella sera. Ma avrebbe ricominciato l'indomani, facendo sia il turno pomeridiano che quello serale. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stata felice di rivedere lo strip club, o di sentire l'odore di liquore e di colonia a buon mercato degli uomini al bancone del bar.
Invece non vedeva l'ora di tornare. Prima, però, una piccola sbronza. Era passato un bel po' di tempo da quando si era ubriacata da sola. Era sicura che alcuni lo considerassero triste e patetico, lei invece l'aveva sempre trovato liberatorio in un modo che non riusciva a comprendere.
Quando sentì bussare alla porta, aveva già trangugiato tre Margarita che si era preparata con il mixer, un miscuglio perfetto che aveva imparato al lavoro. Andando alla porta, si chiese se fosse Chloe, venuta ad affrontare tutto di persona. Danielle quasi sperava che fosse così. Con abbastanza tequila in corpo, sarebbe riuscita a dire liberamente cose che la Danielle sobria non si sarebbe sognata di dire.
Quando aprì la porta, però, non trovò Chloe. Sulla soglia c'era un uomo che indossava quello che Danielle aveva sempre considerato un "abito da sicario". Poiché la sorella era nell'FBI, riconobbe subito l'abbigliamento e l'espressione severa dell'uomo. Era un agente federale. Sembrava avere origini asiatiche e il sorriso che le rivolse appariva fin troppo falso per lei.
"Danielle Fine, giusto?"
"Sono io. E lei è…?"
"Agente Shin, FBI." Le mostrò il suo distintivo, consentendole di studiarlo per un momento, prima di ripiegarlo e di rimetterlo nella tasca interna della giacca. "Le dispiace se entro un attimo?"
"Con tutto il rispetto, per quale motivo?"
"Beh, anche se non conosco sua sorella personalmente, ho sentito parlare delle traversie che avete vissuto in Texas. È una storia che sta facendo il giro del Bureau. Mi è stato chiesto di venire a vedere come sta".
"Da parte di chi?"
"Del mio supervisore. Ci sono alcune questioni in sospeso, riguardo a quello che è successo laggiù e stiamo solo cercando di risolverle. Naturalmente, con sua sorella, quelle questioni possono essere risolte internamente. Ma dobbiamo ricevere qualche conferma e qualche risposta anche da lei".
Danielle gli rivolse un'occhiata sospettosa, ma gli aprì la porta per farlo entrare. Ricordava che Chloe le aveva detto al telefono che c'era un'indagine interna e che se qualcuno veniva a farle delle domande, doveva fare finta di niente. Rifiutarsi di far entrare un agente federale nel suo appartamento sarebbe stato probabilmente considerato l'opposto di fare finta di niente.
Si fece da parte e aprì la porta completamente, permettendo all'agente Shin di entrare. Danielle si sedette al tavolo della cucina, mettendo in chiaro in modo educato che non intendeva lasciarlo girare per appartamento. Shin si arrese e si appoggiò al bancone della cucina.
"Innanzitutto, come sta? So che ha subito qualche ferita durante tutto quello che è successo".
"Grazie per averlo chiesto", disse, cercando di metterci tutto il suo fascino. "Sto bene. Domani torno al lavoro e, tanto vale che lo ammetta: oggi ho festeggiato". Annuì verso il mixer e la bevanda verde pallido al suo interno.
Shin sorrise e disse: "Mi fa piacere sentirlo. Devo chiederle una cosa, e mi dispiace se è troppo personale, ma ha intenzione di proseguire nelle ricerche per trovare suo padre?".
"No", disse subito. "Può andare a fanculo. Mi fregherà di lui solo se si presenterà a Washington, cercando di nuovo me o Chloe".
"Beh, come saprà, il suo identikit è stato consegnato a diversi uffici operativi. Ma non possiamo renderlo una priorità, a meno che non sia lei a volerlo".
Danielle scrollò le spalle e sorseggiò il suo Margarita. "Chloe ed io possiamo parlarne ancora un po', ma credo che con lui abbiamo finito".
Shin annuì, come se capisse perfettamente. In quel momento, un dardo di paura trafisse Danielle. Ricordava che avevano scavato la fossa con una foga folle, ci avevano ficcato dentro il corpo del padre e poi l'avevano coperto. Avevano scavato abbastanza in profondità? Era già arrivata qualche volpe a scavare e aveva trovato il padre come bocconcino?
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