“Cosa?” gli chiese lei incredula.
Lui parve indifferente davanti alla sua reazione.
“La verità è che non ci ho ancora neanche provato.”
“Perché no?” chiese Jessie.
“Pensaci, Hunt,” le disse con pazienza. “Non è che posso andare così all’ufficio locale dell’FBI, farci un giretto dentro e chiedere agli agenti incaricati come stanno andando le loro indagini, soprattutto non lo stesso giorno in cui la profiler più collegata a Crutchfield torna al lavoro. Quello che sto facendo apparirebbe ovvio. Chiuderebbero le serrande. Tu finiresti nei guai. E io perderei il mio status ufficiale di ‘celeberrimo ed emerito’. Non va mica bene.”
“Lo fai sembrare impossibile,” protestò Jessie. “Indipendentemente da come li approcci, sarebbero comunque in guardia.”
“Non necessariamente, soprattutto se capita che mi stia godendo il pranzo in un posto che so essere frequentato da loro. E se loro si siedono con me per la questione del ‘celeberrimo ed emerito’, magari poi si mettono a parlare. Magari vogliono fare colpo sul vecchio e spifferano un po’ di più di quanto dovrebbero. Magari io sembro disinteressato e loro mi dicono ancora di più, giusto per dar prova della loro tempra. Alla gente piace fare così quando mi sta attorno.”
“Per il tuo status di ‘celeberrimo ed emerito’,” ripeté Jessie.
“Ora stai iniziando a capire,” le disse. “Ma nessuno mi dirà una parola se salto fuori e chiedo direttamente. Sono agenti dell’FBI, non bambini di seconda elementare.”
“Quindi perché non sei andato a pranzo?” insistette Jessie.
“Perché loro non vanno mai in questo posto prima dell’una. Per questo ho chiamato il proprietario e gli ho detto di tenermi un tavolo per le dodici e quarantacinque. Un tavolino in fondo, con un po’ di privacy e spazio per tre persone.”
“L’hai già fatto?”
“Sì.”
“Scusa,” disse Jessie, sinceramente impressionata. “Non avrei dovuto saltarti alla gola così. È solo che Hannah è là fuori e Dio solo sa cosa le sta capitando. Ti ho visto qui tranquillo e mi sono infervorata. Non avrei dovuto dare niente per scontato.”
“Lo apprezzo, Hunt. E non biasimarti. Con un vecchio come me, ti si può perdonare per aver pensato che mi sia dimenticato della nostra chiacchierata di questa mattina. Ma posso darti un piccolo consiglio?”
“Certo,” gli disse lei.
“Devi allentare un po’ la presa.”
Jessie annuì.
“È davvero dura per me,” ammise.
“Capisco,” le rispose. “Sono stato così io stesso a lungo. Ma il fatto è che con quello che facciamo ci sarà sempre qualche pazzo là fuori. Ci sarà sempre una vittima in pericolo. Ci sarà sempre un orologio che scandisce il tempo. Ma se tu tieni il piede schiacciato sull’acceleratore per tutto il tempo, vai a sbattere. È inevitabile. E poi non vali più niente.”
Jessie annuì. Tutto quello che stava dicendo aveva senso. Prima che potesse confermarglielo, lui continuò.
“So che non è facile, soprattutto adesso, quando la persona a rischio è la tua sorellastra. Ma a volte devi premere il freno. Devi trovare un qualche equilibrio nella tua vita. Altrimenti ti bruci. E persone che avresti potuto salvare moriranno. Non sto dicendo che non devi lavorare sodo. E non sto dicendo che dovresti fregartene. Ma devi trovare quella linea dove puoi fare questo lavoro ed essere comunque un essere umano funzionante. Altrimenti sarai infelice. Sai cosa intendo dire?”
Jessie si sentiva come se non avesse mai capito niente in modo migliore di così in vita sua.
“Sì,” si limitò a dire.
“Bene,” le rispose lui. “Allora sparisci dal mio ufficio. Devo fare un pisolino prima di pranzo.”
E con quelle parole di saggezza ancora nelle orecchie, Jessie lo lasciò al suo riposo.
CAPITOLO OTTO
Hannah Dorsey ricordò a se stessa che non era ancora morta.
Poteva anche apparire ovvio, ma una settimana fa a quest’ora non avrebbe potuto esserne così sicura. E ogni minuto che era in vita, era una possibilità in più. Almeno questo era ciò che continuava a ripetersi.
Sapeva che era più o meno mezzogiorno, perché vedeva dove il fascio di luce che filtrava dalla finestra arrivava a colpire il pavimento dello scantinato in cui era rinchiusa. Per un po’ aveva pensato che fossero usciti dalla California, perché lì non aveva mai visto uno scantinato prima d’ora.
Ma l’uomo – le aveva detto di chiamarlo Bolton – le aveva spiegato che il precedente proprietario era un immigrato dalla costa orientale, che aveva richiesto che gli venisse costruito un interrato nella sua casa sud-californiana, anche se a livello architettonico non aveva molto senso.
Bolton le aveva spiegato un sacco di cose.
Nelle prime ore dopo aver ucciso i suoi genitori affidatari e averla drogata e rapita, non aveva parlato poi tanto. In parte perché Hannah era troppo frastornata per poterlo capire, inizialmente. Dopodiché erano state le sue grida di panico a impedire ogni conversazione.
Ma dopo circa diciotto ore, era diventata afona a forza di urlare. Oltretutto, era talmente piena di paura e carica di adrenalina e confusione, che ascoltare la voce dell’uomo, con quel suo accento meridionale, era diventato quasi lenitivo. Se parlava, significava che non stava uccidendo. Quindi lei era felice che lui continuasse a blaterare.
Immaginava che sarebbe presto arrivato a fare una chiacchierata. Le portava sempre il pranzo attorno all’ora in cui la luce che entrava dalla piccola finestra colpiva il centro della stanza, e che lei pensava essere appunto mezzogiorno. Aveva capito qualche altra cosa nella settimana che aveva trascorso lì.
Prima di tutto sapeva che era passata più o meno una settimana perché era capace di fare ogni giorno un segno sul palo di legno a cui era incatenata, usando il cucchiaio che lui le aveva lasciato. In effetti era piuttosto sicura che fosse martedì. Sapeva anche che si trovavano in un posto isolato. Altrimenti Bolton l’avrebbe imbavagliata, o almeno avrebbe sbarrato la finestrella che le offriva quel brandello di luce.
Chiaramente non era preoccupato che qualcuno la sentisse chiamare aiuto, o spaccasse la finestra e la vedesse là sotto. E poi non aveva mai sentito una sola auto passare lì vicino, né un aereo volare o un allarme risuonare in lontananza.
Di notte, attraverso il vetro sporco di terra, era capace di vedere una luce lampeggiante rosa e blu in lontananza che proveniva dall’insegna di un locale chiamato Bare Essence. Lo stile dell’insegna suggeriva che si trattasse probabilmente di uno strip club. Ma dato che lei non si considerava un’esperta in materia, l’informazione lasciava il tempo che trovava.
Era anche piuttosto certa che lui non la volesse morta. Non per una mancanza di volontà di ucciderla. Ancora nella casa dei suoi genitori affidatari, prima di drogarla, ma dopo averla imbavagliata e legata, l’aveva portata tranquillamente in salotto e l’aveva fatta sedere nell’angolo in modo che potesse vedere mentre li assassinava.
Non l’aveva fatto di soppiatto. In effetti aveva dimostrato una certa leggerezza in quel massacro. Il padre affidatario era addormentato nella sua poltrona e la madre stava seduta sul divanetto accanto, intenta a guardare la TV.
Dato che non erano rivolti verso di lui, gli era bastato andare in cucina e tornarne fuori con due coltelli, uno di tipo più piccolo e seghettato, l’altro grosso e con la lama liscia. Aveva fatto un leggero occhiolino ad Hannah prima di fare il giro dietro alla coppia, mettendosi a sedere accanto alla madre affidataria, una donna poco appariscente, con i capelli grigi ma comunque ordinata e ben curata che si chiamava Caryn.
Caryn doveva aver pensato che fosse Hannah e si era girata a guardare solo quando era partita la pubblicità. Quando aveva