Si alzò in piedi e guardò fuori dalla finestra. Scrutò tra gli alberi, le ombre fitte anche durante il giorno in mezzo ai i tronchi, e pensò alla lettera di Howard Randall.
Alla domanda di Howard Randall.
Chi sei tu?
Stava iniziando a credere di non essere più certa della risposta. E forse il motivo era che nella sua vita non c’era più il lavoro.
***
Quel pomeriggio interruppe la routine per la prima volta da quando l’aveva stabilita. Guidò fino a South Boston, al cimitero di St. Augustine. Era un luogo che evitava sin dal suo trasloco, non solo per il senso di colpa ma anche perché sembrava che qualsiasi forza crudele manipolasse il fato le avesse sferrato un ennesimo colpo. Sia Ramirez che Jack erano sepolti al cimitero di St Augustine e anche se erano in punti diversi, per Avery era lo stesso. Per quel che la riguardava, il centro dei suoi fallimenti e del suo dolore era in quel parco verde e lei non voleva averci niente a che fare.
Per quello era la prima volta che ci andava dopo i funerali. Rimase seduta in auto per un momento, guardando verso la tomba di Ramirez. Lentamente uscì dalla macchina e si incamminò dove era seppellito l’uomo che era stata pronta a sposare. La lapide era modesta. Qualcuno vi aveva recentemente lasciato sopra dei fiori bianchi, probabilmente sua madre, che si sarebbero seccati e appassiti al freddo in pochi giorni.
Non sapeva che cosa dire ma immaginò che fosse normale. Se Ramirez era consapevole della sua presenza e se avesse potuto sentire le sue parole (e una gran parte di Avery credeva che fosse così), avrebbe saputo che non era una donna sentimentale. Magari era persino scioccato, in qualsiasi luogo etereo si trovasse, che fosse andata a visitarlo.
Si infilò una mano in tasca ed estrasse l’anello che Ramirez aveva avuto intenzione di metterle al dito.
“Mi manchi,” disse. “Mi manchi e ora mi sento così… così persa. E non ti posso mentire… non è solo perché non ci sei più. Non so più cosa fare di me stessa. La mia vita sta candendo a pezzi e l’unica cosa che so potrebbe rimetterla insieme, il lavoro, forse è la scelta peggiore che potrei prendere.”
Cercò di immaginarselo lì con lei. Che cosa le avrebbe detto se avesse potuto? Sorrise pensando a come le avrebbe lanciato uno dei suoi ghigni sarcastici. Stringi i denti e fallo. Ecco cosa le avrebbe detto. Riporta il culo al lavoro e riprenditi quello che è rimasto della tua vita.
“Non mi sei d’aiuto,” disse a sua volta con un sorriso ironico. La inquietava un pochino quanto le veniva naturale parlargli attraverso la tomba. “Mi diresti di tornare a lavoro e di capire come andare avanti, non è vero?”
Fissò la lapide come se volesse costringerla a risponderle. Le scivolò una singola lacrima dall’angolo dell’occhio destro. L’asciugò mentre si voltava e si incamminava verso la tomba di Jack. Lui era stato sepolto dall’altro lato del cimitero, che riusciva a malapena a vedere da dove si trovava. Percorse un sentierino che attraversava il terreno, apprezzando il silenzio. Non fece caso alle poche altre persone lì a commemorare e a ricordare i propri cari, lasciandogli la loro privacy.
Ma quando arrivò alla tomba di Jack, vide che c’era già qualcuno. Era una donna, bassa e con la testa china. Dopo qualche altro passo, Avery capì che era Rose. Aveva le mani infilate nelle tasche e indossava un cappotto con il cappuccio, che era alzato a coprirle la testa.
Avery preferì non chiamarla, sperando di arrivare abbastanza vicino da poter parlare con lei. Ma dopo poco, Rose sembrò percepire il suo arrivo. Si voltò, si accorse di Avery e subito prese ad allontanarsi.
“Rose, non fare così,” disse Avery. “Non possiamo parlare solo per un minuto?”
“No, mamma. Gesù, non vorrai rovinarmi anche questo?”
“Rose!”
Ma la ragazza non aveva nient’altro da dirle. Affrettò il passo e Avery lottò contro se stessa per non inseguirla. Nuove lacrime le inondarono il volto mentre si voltava verso la tomba di Jack.
“Da chi l’ha presa questa testardaggine?” chiese alla lapide.
Come prima, anche la tomba di Jack non rispose. Avery si girò a destra e guardò Rose che camminava in lontananza. Allontanandosi da lei fino a svanire completamente.
CAPITOLO QUATTRO
Quando Avery entrò nell’ufficio della dottoressa Higdon, si sentì un cliché. La dottoressa era una donna composta ed elegante. Sembrava avere sempre la testa alzata verso l’alto, per mostrare la punta perfetta del naso e l’angolo del mento. Era attraente, anche se un po’ appariscente.
Avery aveva lottato contro la tentazione di andare da una psicologa ma sapeva abbastanza di come funzionavano le menti traumatizzate da sapere che ne aveva bisogno. Ed era doloroso da ammettere. Odiava l’idea di andare da una strizza-cervelli e non voleva ridursi a servirsi dei servizi di quella assegnata dalla polizia di Boston che aveva visto negli ultimi anni dopo certi casi particolarmente duri.
Quindi si era rivolta alla dottoressa Higdon, una psicologa di cui aveva sentito parlare l’anno precedente durante un caso in cui il sospettato l’aveva usata per superare una serie di fobie irrazionali.
“Apprezzo che mi abbia dato appuntamento così velocemente,” esordì Avery. “In realtà credevo di dover aspettare qualche settimana.”
Higdon scrollò le spalle mentre si accomodava sulla sua sedia. Quando Avery prese posto sul divano vicino, l’idea di essere un cliché umano crebbe.
“Beh, ho sentito parlare di lei diverse volte al telegiornale,” spiegò la psicologa. “E numerosi nuovi pazienti mi hanno fatto il suo nome, delle persone che apparentemente ha incontrato durante il suo lavoro. Quindi oggi avevo un’ora libera e ho pensato che sarebbe stato bello conoscerla.”
Sapendo che era straordinario ottenere un appuntamento con una psicologa rispettata solo due giorni dopo aver chiamato il suo ufficio, Avery aveva capito di non dover dare niente per scontato. E non essendo tipo da perdersi in chiacchiere, non aveva problemi ad arrivare subito al punto.
“Ho voluto vedere una psicologa perché, a essere sincera, ho una gran confusione in testa al momento. Una parte di me dice che starò meglio allontanandomi dal lavoro. Un’altra dice che invece guarirò solo essendo produttiva e rimanendo in ambiti che mi sono familiari… il che mi riporterebbe a lavoro.”
“Conosco solo i minimi dettagli dei problemi a cui sta accennando,” disse la Higdon. “Potrebbe elaborare?”
Avery passò dieci minuti facendo esattamente quello. Iniziò raccontando come si era svolto l’ultimo caso e concluse con la morte del suo ex marito e del suo futuro fidanzato. Parlò brevemente del suo trasferimento lontano dalla città e della recente crisi con Rose, sia dopo l’incontro al suo appartamento che quando si erano viste sulla tomba di Jack.
La dottoressa Higdon cominciò subito a farle domande, avendo preso appunti per tutto il tempo in cui Avery aveva parlato. “Il trasferimento alla cabina vicino a Walden Pond… che cosa l’ha spinta a farlo?”
“Non volevo stare vicino alla gente. È più isolata. Molto tranquilla.”
“Sente di poter guarire meglio sia emotivamente che fisicamente se sta da sola?” chiese la Higdon.
“Non lo so. È solo che… non volevo vivere dove tutti potessero passare a controllare come stavo centinaia di volte al giorno.”
“Ha sempre avuto difficoltà con le persone preoccupate per la sua salute?”
Avery scrollò le spalle. “Non proprio. È una questione di vulnerabilità, immagino. Nel mio lavoro, la vulnerabilità porta alla debolezza.”
“Dubito che sia vero. In termini di percezione, forse, ma non nella realtà dei fatti.” Si fermò per un momento e poi si sporse