Sbirciò dentro la scatola, sperando di trovare il suo iPod. Non aveva scritto niente sui cartoni quando aveva lasciato il suo appartamento a Boston. Aveva gettato tutto quello che possedeva dentro una serie di scatoloni e aveva traslocato nel giro di una giornata. Era stato tre settimane prima e doveva ancora finire di aprirli tutti. In effetti, anche le sue lenzuola erano aggrovigliate da qualche parte lì in mezzo, ma tanto di quei tempi preferiva dormire sul divano.
La scatola appena aperta non conteneva il suo iPod, ma c’era qualche bottiglia di liquore di cui si era quasi dimenticata. Prese un bicchiere dalla confezione, lo riempì con una sana dose di bourbon e uscì sul portico d’ingresso. Strizzò gli occhi davanti alla brillante luce del mattino e bevve una sorsata di bourbon. Dopo essersi goduta il suo gusto bruciante, ne prese un’altra. Poi diede un’occhiata all’orologio e vide che erano a malapena le dieci del mattino.
Scrollò le spalle e si lasciò cadere sulla vecchia sedia a dondolo che era stata sulla veranda quando aveva comprato quel posto. Si guardò intorno nel suo nuovo vicinato e si sentì rassicurata, certa che avrebbe potuto vivere lì con serenità per il resto della sua vita.
La casa non era esattamente una cabina ma aveva comunque un’atmosfera rustica. Era un posto semplice, a un solo piano e con un interno moderno. In termini di indirizzo, era vicina a Walden Pond ma abbastanza lontana dai sentieri più battuti da potersi considerare “nel bel mezzo del nulla”. La casa più vicina era a mezzo miglio di distanza e tutto ciò che poteva vedere dal suo ingresso e dalla finestra in fondo alla cucina erano alberi.
Non si sentivano clacson. Non c’erano pedoni frettolosi che fissavano con astio i loro cellulari. Niente traffico. Non aleggiava la puzza costante di gasolio e gas di scarico né si udiva il rombo dei motori.
Buttò giù un’altra sorsata del suo bourbon mattutino e tese l’orecchio. Niente. Assolutamente niente. Beh, non era proprio vero. C’erano due uccellini che cinguettavano e si sentiva lo scricchiolio del legno mentre la fredda brezza autunnale attraversava gli alberi.
Aveva fatto del suo meglio per cercare di convincere Rose ad andare là con lei. Sua figlia aveva passato un brutto periodo e Dio solo sapeva che rimanere in città non l’avrebbe aiutata a guarire. Ma la ragazza si era rifiutata. Si era rifiutata con veemenza. Dopo che la situazione si era acquietata, in seguito all’ultimo caso, sua figlia aveva sentito la necessità di dare a qualcuno la colpa per la morte del padre. E come al solito, quel qualcuno era stata Avery.
Per quanto la ferisse, Avery la capiva. Lei avrebbe fatto lo stesso se i ruoli fossero stati invertiti. Durante il suo trasloco nei boschi, Rose l’aveva accusata di scappare via dai suoi problemi. E lei non aveva problemi ad ammettere che era vero. Era andata lì per fuggire dai ricordi del suo ultimo caso… e degli ultimi mesi della sua vita, se doveva essere completamente sincera.
Erano state così vicine a recuperare la relazione che avevano avuto un tempo. Ma quando il padre di Rose era morto, così come Ramirez, l’uomo che aveva iniziato ad accettare come nuovo interesse amoroso della madre, era tutto finito. Rose incolpava Avery per la morte del padre, e anche Avery stava iniziando a fare lo stesso.
La donna chiuse gli occhi e finì il suo bicchiere di bourbon. Ascoltò i rumori quieti della foresta e lasciò che il calore del liquore la confortasse. Aveva già lasciato che lo stesso calore la rinfrancasse nel corso delle ultime tre settimane, ubriacandosi di tanto in tanto, e una volta era persino rimasta svenuta per diverse ore. Poi aveva passato la notte china sul water a piangere Ramirez e il futuro che era arrivata così vicina ad avere.
Riguardandosi indietro, Avery era imbarazzata. Le era venuta voglia di rinunciare del tutto all’alcool. Non era mai stata una gran bevitrice ma quelle settimane erano stati i liquori e il vino ad aiutarla ad andare avanti.
Andare avanti, ma verso cosa? si chiese alzandosi dalla sedia a dondolo e tornando dentro.
Adocchiò il bourbon, tentata di continuare a bere e di distruggersi prima di mezzogiorno solo per superare un’altra giornata. Ma sapeva che sarebbe stato un gesto da codardi. Doveva farcela da sola, e a mente lucida. Quindi ripose la bottiglia insieme agli altri liquori in un armadietto nella cucina. Poi tornò alla sua pila di scatole, di nuovo alla ricerca dell’iPod.
In cima alla prima c’era un mucchio di album fotografici. Dato che sulla veranda aveva ripensato a Rose, li prese subito. Ce n’erano tre in tutto, uno dei quali era pieno delle sue foto dei tempi del college. Lo accantonò per aprire il secondo.
Rose era lì a fissarla. Aveva dodici anni, ed era su uno slittino con una cuffietta coperta di neve. Sotto quell’immagine, Rose continuava ad avere dodici anni. Nella seconda stava dipingendo quello che sembrava un campo di girasoli su un cavalletto nella sua vecchia camera da letto. Avery sfogliò tutte le foto fino ad arrivare a metà dell’album, quando ne trovò una che era stata scattata solo tre Natali prima. Rose e Jack, il padre di sua figlia, stava ballando con aria buffa davanti a un albero di Natale. Entrambi erano sorridenti al punto dell’euforia. Sulla testa di Jack un cappello da Babbo Natale pendeva sbilenco e sullo sfondo brillavano gli addobbi.
Era una pugnalata al cuore, perforante, dolorosa e bruciante. Il desiderio di piangere la travolse come un’esplosione. Non le era ancora capitato da quando si era trasferita lì, anche perché nel corso della carriera era diventata piuttosto brava a soffocare i propri sentimenti. Ma in quel momento la colpì, all’improvviso, e prima che potesse controllarlo, la sua bocca si aprì e ne emerse un gemito agonizzante. Si strinse una mano al petto come se quel pugnale immaginario fosse veramente nella sua carne, e si lasciò cadere sul pavimento.
Provò a rialzarsi, ma il suo corpo era in rivolta. No, sembrava che le stesse dicendo. Ti devi concedere questo momento per piangere. Devi singhiozzare. Devi elaborare il lutto. E chi lo sa? Magari poi ti sentirai anche meglio.
Si strinse all’album fotografico e se lo premette al cuore. Singhiozzò senza controllo, permettendosi di essere vulnerabile per un unico istante. Odiava che lasciarsi andare e crollare così fosse tanto liberatorio. Gemette e pianse, senza dire niente, senza invocare nessuno, né appellandosi a Dio o offrendo preghiere. C’era solo il dolore.
E fu veramente liberatorio. Quasi come un esorcismo.
Non sapeva quanto tempo aveva passato seduta lì sul pavimento, tra le scatole. Tutto ciò che capì, una volta alzata in piedi, era che non sentiva più la necessità di stordirsi con il contenuto di una bottiglia. Aveva bisogno di schiarirsi le idee e di fare ordine tra i pensieri.
C’era una bisogno familiare nelle sue mani, persino più potente del desiderio di nascondere le emozioni con l’alcool. Strinse le dita in deboli pugni e pensò a bersagli di carta e alle lunghe sale dei poligoni di tiro.
Iniziò a sentirsi meglio e le vennero in mente i pochi oggetti che aveva nella camera da letto che uno di quei giorni avrebbe ordinato e decorato. Non c’era molto, ma di sicuro aveva qualcosa di cui si era quasi dimenticata nella nebbia degli ultimi giorni. Lentamente, cercando di farsi coraggio mentre avanzava nel soggiorno pieno di scatole, Avery arrivò alla camera.
Per un istate rimase ferma alla porta e studiò l’arma che aveva appoggiato in un angolo.
Il fucile era un Remington 700 che aveva sin da quando si era diplomata al college. Durante l’ultimo anno, aveva progettato di trasferirsi in un posto remoto per dare la caccia ai cervi durante l’inverno. Suo padre lo aveva sempre fatto e, anche se lei non era particolarmente brava, se lo ricordava con piacere. Le sue amiche l’aveva spesso presa in giro per la sua passione per la caccia e probabilmente aveva anche spaventato un possibile fidanzato o due al liceo con il suo affetto per quello sport. Quando suo padre era morto, la famiglia l’aveva supplicata di prendere il fucile, convinta che l’uomo avrebbe voluto lasciarlo a lei.
L’oggetto aveva viaggiato molto, in un trasloco dopo l’altro, di solito nascosto in un armadio o sotto un letto. Due giorni dopo essersi trasferita