“In un certo senso, si potrebbe dire che Israele è stato già invaso dal Libano,” disse il militare.
Kurt annuì. “Si potrebbe dire così. Insieme all’invasione, Stern ha in progetto di condurre una campagna di bombardamenti. Abbiamo presentato richiesta che la campagna sia limitata alla durata di dodici ore, che sia ideata per evitare vittime civili e che il suo solo obiettivo consista nelle risorse militari note di Hezbollah.”
“E Yonatan cos’ha risposto?” disse Susan. Yonatan Stern non era la persona che preferiva al mondo. Si poteva anche dire che non andavano d’accordo.
“Ha risposto che l’avrebbe preso in considerazione.”
Susan scosse la testa. “Yonatan è un altro dei vostri. Non ha mai visto guerra o sistema d’arma che non gli siano piaciuti.”
Fece una pausa. Sembrava un’altra schermaglia di bassa lega tra Israele ed Hezbollah, proprio come tutte le schermaglie tra Israele e Hamas, e prima ancora le schermaglie tra Israele e l’OLP. Brutte, sanguinarie, rozze, e alla fine inconclusive. Solo un altro giro di prove per il prossimo giro di prove.
“Allora qual è la nostra conclusione qui, Kurt? Quali sono i pericoli, e tu cosa ci suggerisci di fare?”
Kurt sospirò. La testa perfettamente calva rifletteva le luci incassate nel soffitto. “Come sempre, il pericolo è che il combattimento vada fuori controllo e diventi un legame per, o causi, un altro combattimento nella regione. Hezbollah e i palestinesi sono alleati. Spesso Hamas usa queste guerre con Hezbollah come copertura per lanciare propri attacchi di guerriglieri all’interno di Israele. La Siria è nel caos, con numerosi piccoli, ma pesantemente armati, gruppi che cercano di sfruttare l’instabilità.
“Intanto grosse maggioranze in Giordania, Egitto, Turchia e Arabia Saudita si identificano come anti-israeliane. E c’è sempre l’Iran, il più grosso e cattivo del circondario, a incombere sullo sfondo a braccia conserte, con il grande orso russo a incombere dietro tutti. Tutti i coinvolti sono armati fino ai denti.”
“E i nostri prossimi passi?”
Kurt scosse la testa e scrollò le grosse spalle. “I nostri prossimi passi sono sul filo del rasoio. L’intera regione è campo minato, e dobbiamo fare attenzione a dove mettiamo i piedi. Israele è uno dei nostri alleati più vicini e un partner strategico importante. Sono l’unica vera democrazia funzionante di tutta la regione. Nello stesso tempo, il Libano è nostro alleato e partner da molto tempo. La Giordania e la Turchia sono nostri alleati. Acquistiamo buona parte dei rifornimenti energetici esteri dall’Arabia Saudita. Abbiamo anche un impegno come mediatori di pace tra i palestinesi e Israele, e nel progetto di creazione di uno stato sovrano in Palestina.”
Annuì, come a se stesso. “Direi che il nostro lavoro è non infiammare ulteriormente le tensioni, e sperare che questa piccola vampata si riveli un fuoco di paglia – o, ancora meglio, un fuocherello.”
Susan quasi rise. “In altre parole, ce ne restiamo con le mani in mano.”
Adesso Kurt sorrise. “Direi che dovremmo starcene con le mani in mano. Però adesso abbiamo le mani legate dietro la schiena.”
CAPITOLO SEI
12 dicembre
13:40 ora di Israele (6:40 ora della costa orientale)
Tel Aviv, Israele
Le notizie erano brutte.
La giovane sedeva sulla panchina del parco a badare ai suoi gemelli, un maschio e una femmina, che giocavano sulle altalene. Nei dintorni c’era il condominio marrone chiaro, alto sedici piani, dove viveva. Oggi non c’era nessuno in giro, il parco era quasi vuoto.
Era inusuale per un primo pomeriggio di primavera, ma non sorprendente date le circostanze. La maggior parte del paese sembrava trovarsi all’interno da qualche parte, incollato alla tv e ai computer.
La sera precedente Daria Shalit, una soldata di diciannove anni delle forze di difesa israeliane, era scomparsa dopo una schermaglia con terroristi di Hezbollah che avevano condotto un attacco a sorpresa lungo il confine settentrionale. Gli altri sette soldati della pattuglia – tutti uomini – erano morti in combattimento. Ma Daria no. Daria era solo scomparsa.
Le truppe delle IDF avevano seguito i terroristi fino in Libano. Nel combattimento svoltosi lì, erano morti altri quattro israeliani. Undici giovani uomini – la crema della gioventù israeliana – tutti morti nel giro di un’ora. Ma non era questo a consumare il paese.
Il destino di Daria era diventato da un giorno all’altro un’ossessione. Chiudendo gli occhi, la donna riusciva a vedere il bel viso di Daria e gli scuri occhi in fiamme, a sorridere mentre faceva la buffona con una mitragliatrice, a sorridere mentre posava con gli amici in bikini su una spiaggia mediterranea, a sorridere mentre riceveva il diploma superiore. Così bella e sempre raggiante, come se avesse il futuro assicurato, una promessa che era sicura di ricevere.
Adesso gli occhi li chiuse davvero, e lasciò che le lacrime le rigassero le guance. Si portò una mano alla faccia, sperando che i bambini non la vedessero piangere. Aveva il cuore spezzato per una ragazza che non aveva mai incontrato, ma che in qualche modo conosceva bene come se fosse stata sua sorella.
I quotidiani chiedevano a gran voce sangue, richiedendo la completa distruzione del popolo libanese. Nel corso della notte c’erano state violente discussioni nella Knesset, perché il governo presentava minacce, chiedeva il rilascio della ragazza, ma non prendeva un’azione immediata. Stava crescendo una rabbia pronta a esplodere.
Ore fa, era cominciato il bombardamento.
Jet israeliani colpivano il Libano meridionale, la roccaforte di Hezbollah, fino a nord, a Beirut. Ogni volta che l’annuncio passava in tv, i vicini della donna eruttavano in urla ed esaltazioni.
“Uccideteli tutti!” gridava un uomo in qualcosa che pareva trionfo, ma che ovviamente non poteva esserlo. La voce roca era chiara attraverso i muri sottili come carta. “Uccideteli tutti, uno per uno!”
La donna dopo aveva portato fuori i bambini.
Ora sedeva al parco, a piangere silenziosamente, consentendosi di sfogarsi, di buttar fuori, il tutto mentre le orecchie si sintonizzavano cautamente sulle urla e i richiami dei suoi due bambini. I suoi figli, innocenti, sarebbero diventati adulti circondati da nemici che sarebbero stati contenti di vederli con la gola tagliata a morire lentamente di stenti.
“Cosa dobbiamo fare?” sussurrò la donna. “Cosa dobbiamo fare?”
La risposta giunse nella forma di un nuovo suono, all’inizio basso e lontano, che si mescolava con i rumori dei bambini. Presto si fece più vicino e più forte, poi forte e basta. Era un rumore che conosceva fin troppo bene.
Sirene antiaeree.
Sgranò gli occhi.
I bambini avevano smesso di giocare. La guardavano oltre il parco. Le sirene adesso erano forti.
FORTI.
“Mamma!”
Saltò giù dalla panchina e corse verso i bambini. C’era un rifugio antiaereo sotto al condominio – a un quarto di chilometro di distanza.
“Correte!” gridò. “Correte al condominio!”
I bambini non si mossero. Si precipitò da loro e li prese tra le braccia. Poi corse con loro aggrappati a lei, ciascuno a un braccio. Per qualche istante non riconobbe la sua stessa forza. Si fiondò sul manto stradale con quei due preziosi pacchi, che ora piangevano, attorno a loro le sirene, sempre più forti.
Il respiro le risuonava stridulo nelle orecchie.
L’edificio incombeva, sempre più grande e vicino. Ovunque, gente fino a poco prima invisibile correva all’edificio.
D’un tratto giunse un altro rumore – un rumore così forte, così