Una morte e un cane. Фиона Грейс. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Фиона Грейс
Издательство: Lukeman Literary Management Ltd
Серия:
Жанр произведения: Зарубежные детективы
Год издания: 0
isbn: 9781094305301
Скачать книгу
la sua mente era rimasta aggrappata alla parola asta. Poteva farlo? Organizzarne un’altra così presto dopo la prima? Nella precedente aveva avuto un’intera magione piena di mobili in stile vittoriano da vendere. Non poteva tenere un’asta solo per questo oggetto. E poi le sembrava immorale comprare un oggetto antico da una vendita di beneficienza, sapendo quale fosse il suo reale valore.

      “Lo so,” aveva quindi risposto, colpita da un’idea. “Userò il sestante come esca, come maggiore attrazione di un’asta generale. Poi, qualsiasi guadagno io tragga dalla sua vendita, potrà andare a questo negozio.”

      Questo avrebbe risolto due dilemmi: la spiacevole sensazione di comprare qualcosa a un costo di molto inferiore al reale valore, e cosa fare dell’oggetto non appena ne fosse entrata in possesso.

      E così l’intero piano aveva preso forma. Lacey aveva comprato il sestante (e la console, che nell’eccitazione aveva quasi dimenticato di portarsi a casa), decidendo il tema navale per l’asta. Poi si era messa al lavoro, curando l’organizzazione e facendo pubblicità.

      Il campanello sopra alla porta suonò, risvegliando Lacey dai suoi sogni a occhi aperti. Lei sollevò lo sguardo e vide la sua vicina di casa, Gina, con i suoi capelli grigi e il solito cardigan, che entrava in negozio con Boudicca, il suo Border Collie, al seguito.

      “Cosa ci fai qui?” le chiese. “Pensavo ci dovessimo vedere per pranzo.”

      “Giusto!” rispose Gina, indicando un grosso orologio in ottone e ferro battuto che stava appeso alla parete.

      Lacey si voltò a guardare. Insieme a tutto ciò che si trovava nell’Angolo Nordico, l’orologio era tra i suoi elementi decorativi preferiti in negozio. Era un pezzo di antiquariato (ovviamente) e pareva che un tempo fosse stato appeso in una fabbrica vittoriana.

      “Oh,” esclamò notando finalmente l’ora. “È l’una e mezza. Di già? La mattinata è volata.”

      Era la prima volta che le due amiche avevano pianificato di chiudere il negozio per un’ora e avere un pranzo come si deve insieme. ‘Pianificato’ nel senso che Gina aveva versato a Lacey un po’ troppo vino una sera e aveva insistito alla grande, fino a convincerla ad accettare. Era vero che praticamente ogni persona del posto o visitatore a Wilfordshire passava comunque la pausa pranzo in una caffetteria o in un pub, piuttosto che venire a guardare le mensole di un negozio di antiquariato, e che era molto improbabile che l’ora di chiusura interferisse in maniera negativa sugli affari di Lacey, ma ora lei era venuta a sapere che oggi era festa nazionale e iniziava ad avere dei ripensamenti.

      “Forse dopotutto non è una buona idea,” disse Lacey.

      Gina si mise le mani sui fianchi. “Perché? Che scusa ti è venuta in mente adesso?”

      “Beh, non mi ero accorta che fosse festa oggi. C’è in giro un sacco di gente in più rispetto al solito.”

      “Un sacco di gente, un sacco di clienti,” disse Gina. “Perché ciascuno di essi tra dieci minuti sarà seduto dentro a una caffetteria o a un pub, proprio come noi! Andiamo, Lacey. Ne abbiamo parlato. Nessuno viene a comprare antiquariato in pausa pranzo!”

      “E se ci fossero degli europei?” chiese Lacey. “Sai che nel vecchio continente fanno tutto più tardi. Se cenano alle nove o alle dieci di sera, allora a che ora pranzano? Probabilmente non all’una!”

      Gina le posò le mani sulle spalle. “Hai ragione. Ma quelli passano la pausa pranzo facendo una pennichella. Se ci sono dei turisti europei, fra un’ora saranno bell’è addormentati. Per metterla in parole semplici, in modo che te lo ficchi bene in testa: niente shopping nei negozi di antiquariato!”

      “Ok, va bene. Allora gli europei dormono. E se sono venuti da più lontano e i loro orologi biologici sono ancora sfasati, quindi non hanno fame per pranzo e hanno invece voglia di andare a comprare qualche oggetto antico?”

      Gina incrociò le braccia. “Lacey,” disse con tono materno. “Hai bisogno di una pausa. Ti distruggerai se passi ogni singolo minuto di ogni giorno dentro a queste quattro mura, per quanto possano essere artisticamente decorate.”

      Lacey corrucciò le labbra. Poi posò il sestante sul bancone e si diresse con Gina verso la porta. “Hai ragione. Che danno può davvero fare una sola ora?”

      Erano parole di cui Lacey si sarebbe pentita molto presto.

      CAPITOLO TRE

      “Non vedo l’ora di vedere la nuova sala da tè,” disse Gina con fare esuberante mentre lei e Lacey passeggiavano sul fronte mare, i loro amici canini che si rincorrevano a vicenda sul bagnasciuga, scodinzolando eccitati.

      “Perché?” chiese Lacey. “Cos’ha di così speciale?”

      “Niente in particolare,” rispose Gina. Abbassò poi la voce: “Ho solo sentito che il nuovo proprietario era un wrestler professionista! Non vedo l’ora di conoscerlo!”

      Lacey non poté trattenersi. Piegò indietro la testa e rise sguaiatamente in risposta a quel grottesco pettegolezzo. Però era anche vero che non tanto tempo prima tutti a Wilfordshire avevano pensato che lei potesse essere un’assassina.

      “Che ne dici se prendiamo con le pinze questa diceria?” suggerì a Gina.

      L’amica sbuffò, poi entrambe si misero a ridere.

      La spiaggia era particolarmente bella ora che faceva più caldo. Non era ancora la temperatura ideale per prendere il sole o mettere i piedi nell’acqua, ma c’erano un sacco di persone in più che passeggiavano, comprando gelato dai furgoncini. Mentre camminavano, le due amiche si persero nelle loro chiacchiere, e Lacey aggiornò Gina sulla chiamata di David e sulla toccante storia dell’uomo e della ballerina. Poi arrivarono alla sala da tè.

      Si trovava all’interno di un edificio che era stato adibito precedentemente a ricovero per le barche, proprio di fronte al mare. Erano stati i precedenti proprietari a ristrutturarlo e convertirne l’utilizzo, trasformando il vecchio capanno in una specie di squallido bar, un locale che Gina le aveva insegnato a definire ‘bettola’. Ma i nuovi proprietari avevano decisamente migliorato il design. La facciata di mattoni era stata ripulita, eliminando tutti i rimasugli di escrementi di gabbiano che vi si erano accumulati probabilmente a partire dagli anni Cinquanta. Avevano messo all’esterno una lavagna dove c’era scritto, in ordinato e quasi professionale corsivo: caffè biologico. E la porta in legno che c’era prima era stata sostituita da una in lucido vetro.

      Gina e Lacey si avvicinarono. La porta si aprì automaticamente, come a invitarle a entrare. Le due amiche si scambiarono un’occhiata e avanzarono.

      Vennero subito accolte dal pungente aroma di chicchi di caffè, seguito dal profumo di legno, terriccio umido e metallo. Non c’erano più le vecchie piastrelle bianche che rivestivano interamente le pareti, ed erano spariti anche i banchetti in plastica rosa e il pavimento in linoleum. Ora le pareti di mattoni erano a vista e le vecchie tavole del pavimento erano state verniciate di scuro. In sintonia con quell’atmosfera rustica, i tavoli e le sedie sembravano essere stati ricavati da tavole di vecchie barche di pescatori – cosa che spiegava l’odore di legno – e delle tubature in rame mascheravano tutti i cavi che alimentavano le grandi lampadine in stile Edison che pendevano dall’alto soffitto, e da cui veniva l’odore di metallo. Il profumo di terra derivava invece dal fatto che in ogni spazio libero era stato sistemato un cactus.

      Gina strinse il braccio di Lacey e sussurrò inorridita: “Oh no, è… trendy!”

      Lacey aveva recentemente imparato, durante uno dei suoi viaggi alla ricerca di pezzi d’antiquariato a Shoreditch, a Londra, che trendy non era un complimento da usarsi alla guisa di ‘stiloso’, ma che aveva piuttosto un sotto-significato che tendeva al frivolo, pretenzioso e arrogante.

      “A me piace,” ribatté. “È ben strutturato. Anche Saskia sarebbe d’accordo.”

      “Attenta. Non farti fregare,” aggiunse Gina, facendo un movimento esagerato per evitare un grosso cactus