“E se lei non vede l’avviso?”
“Questa è una possibilità molto reale. Abbiamo un sacco di membri del personale che lavorano come volontari secondo orari stabiliti ad hoc. La persona con cui lei ha parlato prima potrebbe non essere neanche mai più tornata in ufficio dopo quella prima chiamata.”
Lacey aveva già sentito prima anche queste parole nelle numerose telefonate che aveva fatto, ma ogni volta sperava e pregava in un risultato diverso. Il personale del centralino sembrava diventare sempre più irritato dalla sua insistenza.
“Ma se era una volontaria, non significa forse che potrebbe anche non tornare mai più a lavorare lì?” chiese.
“Certo. C’è questa possibilità. Ma non so cosa lei voglia che io faccia più di così.”
Lacey ne aveva abbastanza di usare le sue armi di persuasione per quel giorno. Sospirò e ammise la propria sconfitta. “Ok, va bene. Grazie comunque.”
Riattaccò il ricevitore, il cuore che le sprofondava nel petto. Ma non aveva intenzione di stare a rimuginarci sopra. I suoi tentativi di trovare delle informazioni su suo padre sembravano andare avanti di due passi e indietro di uno e mezzo, e lei si stava abituando ai vicoli ciechi e alle delusioni. E poi aveva anche un cliente di cui occuparsi, e il suo adorato negozio aveva sempre la precedenza su tutto il resto nella mente di Lacey.
Da quando i due detective della polizia, Karl Turner e Beth Lewis, avevano postato il loro avviso ufficiale per dire che lei non aveva niente a che vedere con l’omicidio di Iris Archer – e che in effetti aveva addirittura dato una mano nella risoluzione del caso – il negozio di Lacey aveva fatto un salto di qualità. Ora gli affari erano floridi, con un costante flusso giornaliero di clienti, tra cui gente del posto e turisti. Lacey ora aveva un reddito sufficiente da permetterle di acquistare il Crag Cottage (un affare che stava negoziando con Ivan Parry, il suo attuale locatore), e aveva anche abbastanza soldi per pagare Gina, la sua vicina casa, e ormai cara amica, per delle ore lavorative quasi permanenti. Non che Lacey si prendesse del tempo libero durante i turni di Gina: lo usava per studiare l’organizzazione delle aste. Quella che aveva condotto per le proprietà di Iris Archer era stata un successo e aveva deciso di ripetere l’esperienza ogni mese. Domani ci sarebbe stata la prossima, e lei era trepidante di aspettativa.
Uscì da dietro il bancone – Chester che alzava la testa per rivolgerle il suo consueto mugolio – e si avvicinò all’uomo. Era uno sconosciuto, non uno dei regolari clienti, e stava guardando con attenzione lo scaffale che conteneva le ballerine di cristallo.
Lacey si tirò indietro i riccioli neri e si diresse verso di lui.
“Sta cercando qualcosa in particolare?” chiese quando gli si fu avvicinata.
L’uomo sobbalzò. “Mio Dio, mi ha spaventato!”
“Mi scusi,” disse Lacey, notando ora il suo apparecchio per l’udito e ricordando a se stessa che non era il caso di arrivare di soppiatto alle spalle di gente anziana. “Mi stavo solo chiedendo se stesse cercando qualcosa di specifico, o se stesse solo curiosando.”
L’uomo tornò a guardare le statuine con un sorrisino sulle labbra. “È una storia buffa,” disse. “È il compleanno della mia ultima moglie. Sono venuto in città per un tè e un dolcetto come una specie di celebrazione della memoria, capisce. Ma mentre passavo davanti al suo negozio, ho sentito l’impulso di entrare.” Indicò le statuine. “La prima cosa che ho visto sono state queste.” Guardò Lacey lanciandole uno sguardo d’intesa. “Mia moglie era una ballerina.”
Lacey gli restituì il sorriso, commossa dall’intensità emotiva di quella storia. “Che cosa adorabile!”
“Era negli anni Settanta,” continuò l’uomo, allungando una mano tremante e prendendo un modellino dallo scaffale. “Ballava con la Royal Ballet Society. In effetti era la prima ballerina che…”
Proprio in quel momento il rumore di un grosso furgone che passava troppo velocemente sopra al rallentatore proprio davanti al negozio interruppe l’uomo a metà frase. Il tonfo che ne conseguì gli fece fare un salto per la paura e la statuina gli volò dalle mani. La ballerina colpì le tavole di legno del pavimento e un bracciò si spezzò, scivolando sotto allo scaffale.
“Oh mio Dio!” esclamò l’uomo. “Mi spiace tantissimo!”
“Non si preoccupi,” lo rassicurò Lacey, lo sguardo fisso fuori dalla finestra, sul furgone bianco che aveva accostato vicino al marciapiede e si era fermato, il motore ancora acceso che rumoreggiava e sputacchiava fumo. “Non è stata colpa sua. Penso che l’autista non abbia visto il rallentatore. Probabilmente ha danneggiato anche il furgone.”
Lacey si inginocchiò a terra e allungò il braccio sotto allo scaffale, fino a che non sfiorò il bordo appuntito del braccio di cristallo. Lo tirò fuori, ora ricoperto di un leggero strato di polvere, e si rimise in piedi, vedendo ora l’autista del furgone che scendeva dalla cabina.
“No, questo è uno scherzo…” mormorò Lacey, socchiudendo gli occhi e identificando il colpevole. “Taryn.”
Taryn era la proprietaria del negozio della porta accanto. Era una donna meschina e con la puzza sotto il naso a cui Lacey aveva affibbiato il titolo di Persona più Sgradita di Wilfordshire. Cercava sempre di combinarle dei tiri mancini per indurla a lasciare la città. Taryn aveva fatto tutto ciò che poteva per portare alla frustrazione i tentativi di Lacey di avviare un’attività lì a Wilfordshire, fino ad arrivare al punto di trapanare la parete del suo stesso negozio con il solo scopo di irritarla con il rumore! E sebbene la donna le avesse chiesto una tregua dopo che il suo tuttofare si era spinto un po’ troppo in là ed era stato beccato a gironzolare attorno al cottage di Lacey una notte, Lacey non era del tutto sicura di potersi completamente fidare di lei. Taryn faceva il gioco sporco. Questo era sicuramente un altro dei suoi trucchetti. Tanto per cominciare, era impossibile che non sapesse che lì c’era un rallentatore: si vedeva dalla finestra del suo negozio, santo cielo! Quindi ci era passata sopra così velocemente apposta. Poi, per aggiungere al danno la beffa, aveva lasciato il furgone esattamente davanti al negozio di Lacey, piuttosto che davanti al proprio, nel tentativo forse di bloccare la visuale, o forse per mandare il fumo del tubo di scarico nella sua direzione.
“Mi spiace tantissimo,” ripeté l’uomo, risvegliando Lacey dai suoi pensieri. Stava ancora tenendo in mano la statuina, ora senza un braccio. “La prego, mi permetta di pagare per il danno.”
“Ci mancherebbe,” gli disse Lacey con fermezza. “Lei non ha fatto niente di sbagliato,” spiegò, lanciandosi un’occhiata furente dietro le spalle, fuori dalla finestra. Fissò la donna, seguendola mentre andava allegramente verso il retro del furgone, come se non ci fosse niente al mondo a preoccuparla. L’irritazione di Lacey nei suoi confronti era sempre più palpabile. “Se c’è qualcuno che ha colpe, qui, è l’autista del furgone.” Strinse le mani in due pugni. “Sembra quasi che l’abbia fatto apposta! Ahi!”
Lacey sentì qualcosa di affilato in mano. Aveva stretto così forte il braccio spezzato della ballerina, da graffiarsi la pelle.
“Oh!” esclamò l’uomo vedendo la piccola goccia di sangue che sgorgava dal palmo di Lacey. Afferrò il pezzetto di cristallo dalla sua mano, come se a toglierlo potesse in qualche modo riparare la ferita. “Si sente bene?”
“La prego di scusarmi un secondo,” disse Lacey.
Andò verso la porta, lasciando dietro di sé il confuso cliente – con una ballerina rotta in una mano e il braccio staccato nell’altra – e si diresse verso la strada, andando dritta verso la sua nemica.
“Lacey!” disse Taryn con espressione raggiante mentre apriva la porta posteriore del furgone. “Spero non ti spiaccia se parcheggio qui. Devo scaricare lo stock della nuova stagione. Non è l’estate la stagione migliore per la moda?”
“Non