Il dolore alla testa continuava ad aumentare e il momento d’affrontare il mondo esterno, per oggi, dal mio punto di vista, non era ancora arrivato. Barcollando ritornai al punto di partenza crollando a terra, non prima però d’aver racimolato un foglio di giornale da posare sopra il viso, riprendendo così a dormire, con la speranza che al risveglio le mie condizioni sarebbero state migliori.
Non so per quanto tempo assecondai i miei sensi, anche se ipotizzavo per diverse ore, visto che scostando il foglio di giornale, la luce del giorno non filtrava più dalle finestre. Aprii gli occhi e a stento riuscii a vedere l’ambiente che mi circondava. Questa volta non era a causa della vista appannata, bensì del buio dal quale ero stato invaso nel sonno. Ad aiutarmi c’erano i fari delle autovetture che transitavano per le strade adiacenti al fabbricato, le quali con il loro riflesso, mi permettevano, sebbene a intermittenza, di conoscere il terreno sul quale avrei posato i piedi.
Decisi quindi di rialzarmi e uscire da lì. Ora che guardavo intorno però un interrogativo mi giungeva naturale, ma dov’era l’uscita? Rimasi immobile a osservare, ma non riuscivo a individuarla. Il mal di testa andava lentamente scemando. La mente si era messa in moto ma il mondo leggermente sbiadito che mi circondava non m’aiutava per niente. Era come se stessi guardando un film degli anni settanta alla tv, e in tutto questo, nessun elemento riusciva a farmi individuare ciò che cercavo. M’avvicinai a quella che sembrava una porta, ma non appena provai ad azionarne la maniglia e a tirare verso di me, m’accorsi che era bloccata con una spessa catena aggrovigliata alle maniglie antipanico, ed un lucchetto a bloccarla. Provai con un’altra porta, ma la storia era sempre uguale. Mi ritrovai così a girovagare per la fabbrica in cerca di un’uscita. Passai vicino a quello che un tempo doveva essere stato un ufficio, o qualcosa predisposto per esserlo. Sembrava la classica stanza ricava all’interno di quell’immensa struttura per avere un po’ di tranquillità e conservare le scartoffie dell’azienda, senza ritrovarsele sparse per tutta la ditta. Passando accanto alla porta, i cui infissi erano stati divelti, mi accorsi che una tenue luce arancione illuminava il suo interno. Non si vedeva gran che, ma tanto bastava ai miei occhi per scovare un’apertura, magari la stessa dalla quale ero entrato. Una volta all’interno, cominciai a guardarmi un po’ intorno per scovare la fonte del chiarore. Le pareti laterali erano completamente intatte, prive di qualsiasi finestra. Trovandomi senza alternativa, alzai la testa, constatando che sul soffitto c’era un foro. Era stato fatto grossolanamente con un martello, considerati i margini tutt’altro che simmetrici e levigati. Da quel foro, che prendeva forma vicino alla parete laterale, vi era una scala di ferro, la quale permetteva l’accesso al piano superiore. Visto che i miei impegni per le prossime ore non erano così alettanti all’interno di quello stabile, illuminando il display del mio Casio nero anni ’90, comperato da un cinese a poco meno di dieci euro, controllai l’ora, 22.30, dopo di che mi avventurai su per quella scala, accedendo così al soffitto della stanza. Una volta raggiunto il tetto, mi trovai di fronte ad una finestra aperta, o meglio, i vetri erano stati rimossi dall’intelaiatura dell’infisso, e si poteva utilizzare questo difetto come accesso, visto che dava direttamente alla scala antincendio.
Senza guardarmi molto intorno e senza pensarci più del dovuto, mi ritrovai in strada. E ora? Pensai. Dove vado? Cosa faccio? Non ho più una meta, uno scopo, non sono più nessuno. Tutto quello che ero, non lo sono più. Tutta la mia vita sino ad ora era come se non l’avessi vissuta, come se fosse stata spazzata via da un uragano, senza preavviso e ringraziamento, ero solo, quasi fossi stato partorito da ventiquattro ore e buttato in mezzo alla strada senza nessuna guida o persona che si prendeva cura di me. Alcune macchine mi sfrecciavano accanto incuranti della mia presenza, presi dalla loro vita così all’apparenza perfetta e priva di pensieri, o almeno degni di essere chiamati tali. Ora che stavo meglio, mi era tornata la voglia di bere, di ridurmi uno straccio per far passare un’altra notte e un altro giorno. Lo avevo fatto per un mese e avevo voglia di rifarlo sino allo sfinimento, per ritrovarmi ogni mattina in quella dannata fabbrica e chiedermi come cazzo ero arrivato lì e cosa diavolo mi era accaduto. Alzai lo sguardo e un negozio di pakistani era lì a un centinaio di metri con le sue luci accese e i suoi alcolici. Cominciai a incamminarmi pregustando il bruciore dell’alcool nella bocca e nello stomaco. Infilai le mani nelle tasche per controllare quanti soldi avessi, ma ciò che trovai fu solo un fazzoletto di carta usato: nemmeno al tempo del baratto ci avrei ricavato qualche cosa. Come diavolo avrei fatto ora? Con cosa l’avrei pagato il rum? Non c’erano molte macchine parcheggiate per strada, sempre meglio che nessuna, pensai. Le controllai una a una, per verificare se qualcuna avesse la porta aperta o il finestrino abbassato di qualche centimetro, ma non ebbi molta fortuna, infatti mi ritrovai di fronte alla vetrina del negozio con pochi spiccioli in mano. Che cosa avrei fatto ora? E se fossi entrato e dopo aver preso quello che m’interessava me ne fossi andato a gambe levate senza pagare? Forse quel pakistano non mi avrebbe riconosciuto,