Quando Edith volse lo sguardo verso di lui, egli subito le parlò.
– Come le piace Davos? – chiese.
– Tanto, – rispose Edith.
E il giovane approvò col capo e sorrise.
La ragazza russa aprì gli occhi neri e guardò Edith.
– E' appena arrivata? – domandò.
– Sì, da tre giorni soltanto, – rispose Edith. – E lei, da quanto tempo è qui?
– Da quattro anni, – disse la ragazza, richiudendo gli occhi.
Edith volse il capo verso il giovane tedesco, scambiando con lui un'occhiata di compassione.
– E lei? – gli domandò.
– Io sono qui da otto mesi, – rispose il giovane. – Sono guaritissimo, e torno a casa in maggio.
La russa riaprì i cupi occhi infossati, ma non parlò.
– Va al ballo lei, questa sera? – chiese il giovane a Edith dopo un momento di silenzio.
– Un ballo? qui? – domandò Edith, sorpresa.
– Già, già! Proprio in questo hôtel, nel gran salone. Sicuro, si balla ogni mercoledì qui al Belvedere. E al Grand Hôtel ogni sabato. Questo è un posto dove ci si diverte molto! – E il giovane diede un piccolo colpo di tosse per schiarirsi la gola e canticchiò la « Valse bleue ».
Quella sera Edith andò con sua madre nel gran salone, e sebbene non ballasse, si divertì assai. La signora Avory le chiedeva ogni momento:
– Sei stanca? Sei stanca?
Ma Edith non era stanca. Sentiva nell'atmosfera intorno a lei un vibrante e intenso eccitamento, a cui ella partecipava senza capirlo: era il perturbante, febbrile eccitamento di una danza macabra.
Fritz Klasen le venne davanti e, dritto, battendo insieme i tacchi, si presentò a sua madre e a lei.
– Mai più avrei pensato che Davos fosse così gaia, – disse la signora Avory, levando sul viso del giovane i miti occhi celesti.
– Altro che gaia! – rispose lui, ridendo. – E' il posto più allegro del mondo; non abbiamo tempo qui da perdere in malinconie.
Una signorina vestita di seta gialla si precipitò verso di lui:
– Presto. La quadriglia! – esclamò, prendendogli il braccio e trascinandolo via.
Se ne andarono ridendo, e sdrucciolando come bimbi sul lucido impiantito.
– Non pare ammalato, quel giovane, – osservò la signora Avory.
– E la ragazza neppure, – disse Edith.
– Ma nessuno qui sembra ammalato; – e la madre girò lo sguardo sulla gaia folla danzante, chiedendosi con meraviglia se ciascuno di essi portava chiuso in sè il funesto e spaventevole spettro che ella sapeva rinserrato nel fragile petto di sua figlia. – Hai notato, – disse, – che non si sente mai nessuno tossire?
– E' vero, – disse Edith.
Dopo una breve pausa, la signora Avory disse:
– Probabilmente tutta questa gente è qui per godersi gli sports dell'inverno.
E per molto tempo, credette che fosse così. Vedeva intorno a sè visi giovani, e guancie colorite, e occhi vividi; e udiva chiacchierare molto, e ridere. Oh! sopratutto ridere, sempre ed eccessivamente. V'erano balli e concerti, feste e bazars; e sempre e dapertutto si ritrovavano gli occhi vividi e le guancie colorite e le folli risate.
Un'unica cosa singolare notava la signora Avory, ed era questa: quando, nell'augurare la buona notte ai nuovi amici, stringeva loro le mani, quelle mani erano strane al tocco, e la facevano trasalire. Non erano come le mani dell'altra gente, della cui stretta non ci si accorge. « Buona notte, » all'uno. (« Dio, che mano calda! » pensava la signora Avory). « Buona notte, » all'altro. (« Che mano fredda e umida! ») Mani di fuoco e mani di ghiaccio; mani aride che parevano doversi sbriciolare al tocco; mani umide che la facevano rabbrividire; deboli mani bagnate, da cui le sue palme rifuggivano. Ognuna di esse narrava la sua tragica storia. Ma i visi ridevano, ed i piedi danzavano e nessuno tossiva mai.
In breve anche Edith cessò di tossire. Il dottore glielo vietò. Ed essa tossiva soltanto di notte; quando nessuno fuor che sua madre la poteva udire.
Così passarono i giorni pieni di promesse, e pieni di delusioni. E Edith, sottomessa, con passo lieve, andava verso il suo fato.
Una sola cosa le straziava l'anima: era il desiderio angoscioso, lo struggimento intenso di vedere Nancy.
Nancy! Oh, Nancy! Nancy! Essa ripeteva piano quel nome mille volte al giorno, e chiudendo gli occhi, tentava rievocare il visino allettatore e i ricci neri ondeggianti al sommo della vaga testolina. Le pareva di sentire un vuoto, quasi doloroso, nelle mani febbrili, per la smania di stringere in esse quelle morbide mani infantili che in passato si erano così soavemente aggrappate a lei.
La signora Avory la consolava. In primavera, o al più tardi in estate, Edith rivedrebbe Nancy! Oh! certo, fra un mese o due Edith starebbe benissimo! Purchè bevesse molte uova crude e fosse ragionevole.
E Edith beveva molte uova crude ed era ragionevole.
Primavera, esitante e timida, scalò i mille cinquecento metri di montagna e arrivò a Davos alla fine di maggio.
Fritz Klasen partiva per tornare a Lipsia.
– Addio! addio! – Faceva il giro della terrazza nell'ora del riposo, stringendo la mano a tutti, e dicendo: « Gute Besserung » e « Auf wiedersehen in Deutschland! » a due o tre amici tedeschi.
Quando giunse presso la ragazza russa, questa dormiva. Edith lo salutò con un sorriso radioso:
– Addio! sono tanto contenta per lei, che parta. Sono proprio tanto contenta!
Quando egli fu partito, Edith si avvide che la russa aveva aperto gli occhi e la guardava fissamente.
– Mi avete parlato? – domandò Edith.
– No, – disse la russa, nella sua strana voce vuota – Ho pensato.
Edith sorrise.
– Che cosa?
– Ho pensato: perchè mentite, voi?
Edith si rizzò a sedere facendosi rossa in viso.
– Come? – esclamò.
Rosalia Antonowa tenne i suoi occhi profondi inchiodati sul viso di Edith.
– Avete detto che siete contenta di vederlo partire. Forse era vero, – soggiunse. – Voi non siete qui che da poco!… Ma tra un anno, tra due anni, tra quattro anni, le vostre labbra non potranno più pronunciare tali parole, e il vostro cuore si stringerà per l'amarezza quando un altro partirà, mentre voi sapete che non partirete mai. Mai!
Le fosche palpebre si richiusero.
Edith cercò qualche cosa di consolante da dire.
– Non bisognerebbe affliggersi di star qui. Davos è così divinamente bella! Non si può non amare questo splendore azzurro, queste montagne, folgoranti di neve e di sole.
– Oh! le montagne! – mormorò Rosalia, con le mani contratte. – Le montagne che mi pesano sul petto! E la neve che mi agghiaccia e mi soffoca, e il sole che mi brucia e mi accieca! Oh! – e alzò il pugno sottile verso l'immensità che torreggiava intorno a lei. – Oh! questa indescrivibile, questa mostruosa prigione della Morte!
In quel momento passò una giovinetta belga, con le labbra pallide e il vitino stretto, e si fermò per domandare a Rosalia come stava.
– Male, – rispose la russa, brevemente.
Quando la ragazza fu passata, si rivolse ancora a Edith.
– E saprete allora cosa vogliono dire quando vi domandano: « come state ». Non è