La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I. Various. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Various
Издательство: Public Domain
Серия:
Жанр произведения: Прочая образовательная литература
Год издания: 0
isbn:
Скачать книгу
domata soltanto da un progressivo avviarsi alla dittatura.

      Quanto all'Impero, esso non e più Roma, ma la dominazione universale del mondo, e se, quando l'Impero si dissolse, si ha il fatto che le grandi diocesi, nelle quali era spartito, furono il nucleo, intorno a cui si composero con lento lavoro le altre nazioni moderne, non è men vero che nella diocesi d'Italia appunto tale fatto non s'avverò, perchè il regno, che i Barbari vi fondarono, li fece bensì re in Italia, ma non re d'Italia, e gl'Italiani, perduti sempre dietro al vano fantasma del cosmopolitismo romano, non consentirono mai che questo regno li unificasse, come altrove era accaduto, fondendosi insieme perfettamente le due razze, quella degli indigeni e quella degli invasori. In Italia, invece, le due razze si contrastano ancora nell'età dei Comuni rappresentate rispettivamente (fino ad un certo segno però) dai feudatari dei castelli e dal popolo del Comune, e quindi entro il Comune stesso dai nobili e dal popolo, benchè nelle costoro discordie nè sempre le loro divisioni siano così esatte, nè sempre abbiano così remote cagioni.

      Per questo non si diè tregua mai neppure a' Goti e a' Longobardi, i meno barbari fra i Barbari; per questo Leone III incoronò in Roma Carlomagno, per impedire cioè che mai sorgesse un regno d'Italia e potesse attecchire uno Stato unificatore.

      Vi fu bensì un regno meridionale; ma straniero d'origine, feudale di carattere, non ha che fare colle tradizioni romane: somiglia appunto ai grandi Stati, che si vengono formando in Europa, e non ha quindi alcuna azione sull'assetto, che l'Italia prende nel Medio Evo. Serve solo ad essere opposto ora dal Papa all'Imperatore, ora dall'Imperatore al Papa, finchè diviene il titolo, il pretesto giuridico delle invasioni straniere e determina il fato della storia moderna in Italia da Carlo VIII fino ai giorni nostri, fino a che Garibaldi, cioè, lo manda a gambe levate. Non si assimila mai nessuna parte d'Italia. Federigo II, re di Puglia e Sicilia, non è in Toscana e in Lombardia se non l'Imperatore, il capo del partito ghibellino. Così Manfredi, così Carlo e Roberto d'Angiò in Toscana, in Romagna, in Piemonte, non fondano mai nulla di proprio, non sono che capi di parte, combattono per la Chiesa e per l'Impero, entrano, vale a dire, nel sistema particolarista delle città italiane, sistema frazionato all'infinito, nel quale non è traccia nè di unità nè di federazione, e a volte neppure di vero guelfismo papale o di vero ghibellismo imperiale, ma che nonostante, tra l'Imperatore assente e il Papa disarmato, si svolge con tale e tanta gloria, forza e potenza, da creare tutta una grande civiltà nazionale, senza paragone possibile nel mondo d'allora e nei secoli seguenti. Troppo ce ne siamo scordati noi, soffocando questa vera tradizione italiana sotto un'unità formale, meccanica e burocratica, che ci diede tutti i guai, senza nessuna delle grandi e feconde energie d'un forte Stato unitario!!

      Il frazionamento è ancora maggiore e non compensato di tanta virtù operativa e di tanta gloria nell'età dei principati.

      E se tuttociò è precisamente l'opposto d'una tradizione unitaria, forsechè nell'età dei Comuni o in quella dei Principati apparisce mai l'indizio d'una vera tradizione federale? Si vorrà ancora citare per l'età dei Comuni il giuramento di Pontida, a cui la Lega Lombarda preesisteva, mentre poi essa stessa non preluse ad alcuna stabile federazione, bensì condusse la lega temporanea di tante città, e dopo la stessa vittoria di Legnano, al Congresso di Venezia, in cui il Papa, capo della Lega, abbandonò subito i suoi alleati per non pensare che a sè, e alla pace di Costanza, in cui i Comuni riconobbero i diritti dell'Imperatore Romano e delle nuove franchigie ottenute si valsero per dilaniarsi peggio che mai fra di loro? Si ricorderà ancora l'equilibrio di Lorenzo il Magnifico, che era tutto un artificio d'un grand'uomo politico, ma non si fondava che sulla sua sapiente destrezza e scomparve con lui? No; una vera federazione stabile, ordinata, nazionale, in Italia non c'è stata mai nè nell'età dei Comuni, nè in quella dei Principati. Vi furono bensì al tempo dei Comuni leghe umbre, toscane, lombarde, formate sempre a qualche intento speciale e quasi sempre sciolte prima che quell'intento fosse conseguito. Ve ne furono altre al tempo dei principati, ma l'interesse, la defezione o il tradimento le sciolsero tutte, nè bisogna nella d'Italia lasciarsi prendere dai miraggi, che a quando a quando vi compariscono. Nel secolo XVI, per esempio, si direbbe che l'Italia stia per ordinarsi un momento sotto l'unità monarchica francese, o sotto la federazione di Cambrai, ma il miraggio scompare subito. Può concepirsi di fatto un'unità politica sotto la mano d'un re straniero, o una federazione di stranieri e italiani contro la gloriosa Repubblica di Venezia? No. Per quanto si faccia, se si cercano nella storia d'Italia, prima della Rivoluzione francese, tradizioni unitarie o federali, non altro si trova invece se non le cagioni prossime o remote delle preponderanze straniere. Nè bisogna lasciarsi ingannare neppure dal sentire tanti scrittori e statisti, e diplomatici e guerrieri, e persino papi, Giulio II, Clemente VII, Paolo IV, parlar sempre di libertà d'Italia. Per tutti (non vuolsi far loro colpa di ciò che in gran parte è colpa dei tempi) per tutti libertà d'Italia non significa già l'Italia nè unità, nè federata, nè libera dagli stranieri, bensì che nessuno degli stranieri, i quali si contendono Napoli o Milano, prevalga all'altro, e sotto a questo concetto v'è ancora un altro particolarismo, che sta più a cuore anche dei patriotti migliori, dei più elevati spiriti di questa o quella regione, vale a dire o che sia libera

      Firenze, o che sia libera Milano, o che lo Stato del Papa non sia a discrezione nè di stranieri nè d'italiani: questo soprattutto che uno Stato italiano, per forza sua o d'alleanze non prevalga sugli altri, cosicchè quando le ambizioni di Venezia si volgono alla terraferma, nessun straniero pare più minaccioso di lei alla cosiddetta libertà d'Italia, nessuna preponderanza è più temuta e più contrastata della sua.

      Dopodichè, nell'età degli Stati non solo non c'è tradizione nè unitaria, nè federale, ma non c'è più politica propria di nessuna fatta. La politica d'ognuno di essi è, a seconda dei casi e dei tempi, francese, spagnuola, austriaca, e il popolo italiano perde persino ogni coscienza dell'esser suo. L'Italia, che pur ha così forti e spiccati segni d'individualità nazionale, essa stessa (molto prima che il Metternich lo dica) si lasciò ridurre nell'età degli Stati un'espressione geografica. Questa divisione dell'Italia, che era di quasi ottanta Stati, ridotti a dieci dopo le guerre di successione e la pace d'Aquisgrana, e non per opera certo degli italiani, ma degli stranieri, questa divisione nazionalmente non ricorda nulla, non rappresenta nulla. Parlando della sola Toscana il Giorgini scriveva nel 1861: «Io conosco tradizioni, glorie fiorentine, senesi, pisane; ma non conosco che umiliazioni e miserie toscane!» Il medesimo si potrebbe dire, e forse con più ragione, delle rimanenti parti d'Italia. E, per concludere, è opportuno notare che tutti gli spigolatori di tradizioni unitarie e federali nella storia d'Italia sono, non volendo, caduti in questo abbaglio singolare, che mentre credono indicare le traccie saltuarie e interrotte dell'uno o dell'altro concetto, altro non fanno che enumerare più o meno compiutamente le cagioni grandi o piccine, per le quali nè unità, nè federazione non sono mai state possibili.

      Se non che, battuti sul terreno dei fatti, si rifugiano nelle visioni dei pensatori, nei vaticinii dei poeti, o tentano far passare per un principio almeno di unificazione nazionale le ambizioni di qualche principe, che approfittando di contingenze favorevoli voleva ingrandire lo Stato. Quanto alle visioni dei pensatori e ai vaticinii dei poeti, il fatto è vero e giovò certo a tener vivo qualche barlume di sentimento nazionale, se non altro, in qualche ristretto cenacolo letterario, ma ricollocati ognuno nel proprio tempo hanno essi veramente il significato che si suole loro attribuire? o qual maraviglia in ogni caso che ingegni ed animi eletti sorpassino la realtà che li circonda, e si slancino nell'utopia inapplicabile o nelle profezie, che non si verificano? può questo fatto da solo costituire una tradizione storica?

      L'unità d'Italia per Dante Alighieri è l'unità dell'Impero restaurato, unità di giurisdizione suprema, non unità di Stato, dalla quale è difficile arguire che il misterioso Veltro, da lui profetato, potesse mai poco o molto rassomigliare prima a Napoleone, poi a Pio IX e finalmente a Vittorio Emanuele o a Garibaldi. Ma Dante è nel suo tempo e va considerato nel suo tempo, anche se il poema divino è, e deve essere per sempre, la bibbia nazionale degli Italiani.

      Egli, difatto, ebbe per primo forse vera coscienza d'una nazionalità italiana. L'ebbe, perchè compose, si può dire, l'unità della lingua italiana, perchè mostrò di conoscere l'importanza etnografica e civile della nostra comunanza di linguaggio col verso: «Il bel paese là dove il sì suona», comprendendovi la Sicilia e il Trentino, perchè finalmente la penisola fu da lui descritta ne' suoi precisi confini