FEDERAZIONE E UNITÀ
Il 18 febbraio 1861 s'adunò per la prima volta in Torino il Parlamento dell'Italia – «libera ed unita quasi tutta,» – come disse con voce sonora Vittorio Emanuele, e sento ancora nell'orecchio e nel cuore quelle parole e lo scoppio di grida entusiastiche, con cui furono accolte.
Pochi giorni dopo, il 17 marzo 1861, fu promulgata una legge d'un solo articolo: «Il re Vittorio Emanuele II assume per sè e suoi successori il titolo di Re d'Italia».
Nel presentarne il progetto ai deputati, il Conte di Cavour scriveva nella relazione, che lo precede: «un gran fatto s'è compiuto; una nuova èra incomincia!»
E il relatore parlamentare, Giambattista Giorgini: «ci sono delle oasi nei deserti della storia, diceva, ci sono nella vita delle nazioni dei momenti solenni, che potrebbero chiamarsi la poesia della storia; momenti di trionfo e d'ebbrezza, nei quali l'anima, assorta nel presente, si chiude ai rammarichi del passato, come alle preoccupazioni dell'avvenire.
«Rendiamoci una volta giustizia! Quanti sediamo su questi scanni, tutti abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa; tutti abbiamo portato la nostra pietra al grande edifìzio, sotto il quale riposeranno le future generazioni. Qui i volontari di Calatafimi potrebbero mostrarci sul petto le gloriose cicatrici; qui i prigionieri di Sant'Elmo, intorno ai polsi, il callo delle pesanti catene; qui colla canizie, colle rughe precoci, oratori, scrittori, apostoli di quella fede, che fece i soldati ed i martiri; qui i generali, che vinsero le nostre battaglie, qui gli uomini di Stato, che governarono le nostre politiche: di qui parta unanime dunque (un) grido d'entusiasmo; qui finalmente l'aspettata fra le nazioni si levi e dica: Io sono l'Italia!»
Enfasi magniloquente, che però era allora di stagione (adesso par di leggere una delle Epistole famigliari, varie o senili del Petrarca); enfasi, che allora altresì, cosa insolita, era perfettamente esatta: il fatto grande e nuovissimo nella nostra storia, il sentimento di gioia suprema, che suscitava in tutti, dal re all'ultimo popolano, la presenza di tutti i principali uomini, che in tanti modi diversi vi avevano cooperato. V'erano tutti in realtà. Non mancavano che Garibaldi e Mazzini… Peccato!
Volle sottolineare tale mancanza il Brofferio, vecchio avversario del Conte di Cavour, accusandolo d'avere con questa legge usurpata un'iniziativa, che spettava tutta invece alla rappresentanza popolare. Il Cavour sentì il colpo e fieramente lo parò. «Tutti gli Italiani,» rispose, «hanno avuto parte nel gran dramma del nostro risorgimento, ma mi sia pur lecito dirlo e proclamarlo con profonda convinzione; negli ultimi avvenimenti l'iniziativa fu presa dal governo del Re… Fu il governo, che prese l'iniziativa della campagna di Crimea; fu il governo del Re, che prese l'iniziativa di proclamare il diritto d'Italia nel Congresso di Parigi; fu il governo del Re, che prese l'iniziativa dei grandi atti del 1859, in virtù dei quali l'Italia s'è costituita». Perciò, concludeva con altre parole, anche l'iniziativa di proclamare l'unità nazionale spetta al governo del Re.
E perchè no? Si millantava forse il Conte di Cavour? Senza quelle iniziative, tutte sue (e notate che tacque della campagna delle Marche e dell'Umbria) l'impresa di Garibaldi in Sicilia e Napoli sarebbe essa stata mai neppure possibile? Dell'unità nazionale non v'ha dubbio, il più antico e perseverante apostolo era stato il Mazzini, e quindi era egli pure un grande coefficente di ciò che ora accadeva, ma chi avrebbe potuto sul serio, nell'ordine dei fatti, paragonare l'opera del Conte di Cavour coi tentativi del Mazzini dal 1833 insino allora?
Se non che il partito radicale e ultra-democratico, di cui in quel momento si facea interprete il Brofferio, avea sempre capito così poco il Conte di Cavour da parergli la maggiore accusa, che gli si potesse fare, essere appunto questa, ch'egli fin dalla culla non era stato e ad ogni costo unitario, che, piemontese e monarchico innanzi tutto, sfruttava ora l'opera d'altri a beneficio dell'antica politica dinastica del carciofo, e affrettava le annessioni e l'unità italiana con lo zelo del neofita, dell'operaio dell'ultim'ora, del convertito da un improvviso raggio di sole sulla via di Damasco.
Tuttociò, se fu detto o scritto in buona fede (del che è lecito per molti di dubitare) è stolto ed insipiente in sommo grado, e non merita altra risposta se non quella che mi rammento aver io stesso sentita dare da Ruggero Bonghi ad un amico, progressista repubblicaneggiante, cui pareva aver trovato l'Achille degli argomenti contro la memoria del Conte di Cavour.
Passeggiavamo di piena estate in una campagna e dopo aver molto discusso: – Insomma, – sclamò quel tale, – Mazzini credeva fino dal 1832 all'unità italiana e il Conte di Cavour no. Ora all'ultimo chi ha avuto ragione? – Senti; – rispose il Bonghi – se tu in questo momento dici: «credo che nevica,» per certo dici una sciocchezza. Ma se seguiti a dirla fino a quest'inverno, e nevica, come di solito, e tu vuoi vantarti: «vedete, se avevo ragione?;» ne dici un'altra, e son due. Per oggi basta! —
Così è in realtà, e lasciando stare ciò che il Conte di Cavour abbia pensato e creduto in gioventù, perchè mai il giorno dopo Novara sarebb'egli stato unitario o federalista? chi sapeva, dopo quell'immensa ruina del 1848 e 49, che cosa sarebbe accaduto? Qual'è la dottrina, che s'era salvata? quale il partito politico, che non fosse stato sconfitto, benchè tutti avessero fatte lo loro prove? La grandezza maggiore, l'originalità vera del Conte di Cavour stanno appunto in quella piena libertà di spirito, con cui pigliò l'impresa italiana. Non una tradizione lo preoccupava, non un impegno settario lo impediva, non una vecchia dottrina tiranneggiava i suoi pensieri. Sentiva, e profondamente sentiva, tutta l'immensa miseria della vita italiana; solamente non avvertiva forse tutto il guasto, che tre secoli di servitù aveano arrecato al carattere nostro e perciò potè procedere più franco, più sicuro, più espedito d'ogni altro. La sua cultura era principalmente inglese e francese; i suoi viaggi erano stati tutti all'estero; l'Italia gli era quasi ignota, e tuttavia essa era in cima d'ogni suo pensiero. Ciò pure, direi, gli ha giovato. Gran parte delle incertezze di Massimo d'Azeglio, che avea vissuto a Roma, a Firenze, a Milano, a Napoli, gli proveniva dal conoscere troppo bene gli Italiani. L'audace confidenza del Conte di Cavour dal conoscerli poco; lo ha notato lo stesso Garibaldi. Non è un complimento per gli Italiani, ma sempre più ogni giorno che passa la credo una verità! Per questo il Conte di Cavour fu tra gli Italiani un fenomeno così straordinario. Non soltanto la potenza della mente lo singolareggiava fra tutti. Altri uomini di mente potentissima e per certi rispetti superiori a lui, non mancavano di certo all'Italia. Bensì l'organismo stesso della sua mente, la forma della sua cultura, la tendenza, la disposizione del suo spirito, il modo, con cui afferra, esamina, risolve ogni questione, che gli si presenti, tutto questo esser suo, così fondamentalmente diverso anche dalle più insigni varietà dell'ingegno italiano, fa del Conte di Cavour un fenomeno; fa sì ch'egli venga tardi sulla scena politica, che in sua gioventù e durante la rivoluzione del 1848-49 rimanga un po' appartato, che nonostante la perspicuità somma delle sue idee e delle forme, nelle quali le espone, apparisca per molto tempo agli avversari politici, ed anche uh poco agli amici, una specie di enigma, a cui si cercano mille assurde spiegazioni, ora titolandolo un anglomane (il Brofferio e compagni lo chiamavano Lord Cavour) ora un reazionario, ora un municipalista; fa sì che tra la stessa aristocrazia, donde usciva, lo si giudichi ne' suoi primordi un cervello torbido e fuor di squadra, a Corte un Giacobino in ritardo e fra la diffidente borghesia liberale del Piemonte, che avea tante rivendicazioni da fare, un personaggio sospetto e da mettere in quarantena. Chi prima di tutti lo indovinò e lo preconizzò fu Vincenzo Gioberti, stato già suo avversario politico, ma che gli rese giustizia con quelle parole del Rinnovamento Civile scritte nel 1851: «quel brio, quel vigore, quell'attività mi rapiscono e ammiro lo stesso errore magnanimo di trattare una provincia, come fosse la nazione, se lo ragguaglio alla dappocaggine di coloro, che ebbero la nazione in conto d'una provincia. Io lo reputo per uno degli uomini più capaci, dal lato dell'ingegno, di cooperare al principe nell'opera di cui ragiono.»
Ma di quale ingegno parlava il Gioberti? Perocchè su questa qualità così generica dell'ingegno, di cui a volte non sono privi neppur quelli che in sostanza non ne azzeccano mai una, e i tristi poi ne sono per lo più forniti a dovizia, anche su questa, dico, qualità generica dell'ingegno, bisogna intendersi. E quale propriamente fosse l'ingegno del Cavour niuno l'ha detto con più finezza di Isacco Artom, uno dei suoi collaboratori più modesti e più intimi. «Egli non si proponeva