I Mille. Garibaldi Giuseppe. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Garibaldi Giuseppe
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
Год издания: 0
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andar avanti, finirono coll’affidarsi al freddo ferro delle loro baionette.

      Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne, se all’ultimo mio respiro – i miei amici vedranmi sorridere l’ultimo sorriso d’orgoglio – esso sarà ricordando – Tu fosti il combattimento più glorioso di popolo!

      I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d’una nazione oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei Trecento di Sparta o di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione – e formidabile – ed i soldati della tirannide brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti a loro!

      Come potrò io scordare quel gruppo di giovani, che tementi di vedermi ferito, m’attorniavano, facendomi del loro prezioso corpo un baluardo impenetrabile!

      Se io scrivo commosso a tali memorie, ne ho ben donde! E dover mio non è forse di ricordar, fra i molti, almeno i nomi di quei valorosi caduti: Montanari, Schiaffino, Poggi, Elia?10.

      CAPITOLO VII

      LINA E MARZIA

      E tu i cari parenti e l’idïoma

      Desti a quel dolce di Calliope labbro

      Che amore in Grecia nudo e nudo in Roma

      D’un velo candissimo adornando

      Depose in grembo a Venere celeste.

(Foscolo.)

      Ma chi furon quei due giovinetti che nel gruppo dei più arditi tra gli Argonauti volevan precederli verso il nemico gareggiando a chi doveva affrontarlo pel primo?

      Essi son diversi di forme, l’uno pare un figlio della Germania, colla sua capigliatura bionda, che non potea esser nascosta da un bonetto cui s’attortigliava graziosamente una fascia di seta; l’altro bruno di volto e di capelli, somigliava piuttosto ad un meridionale italiano. Ambi imberbi, ciocchè li mostra giovanissimi. La foggia del vestire è quasi identica, alquanto più accurata del resto dei Mille, ma modesta. E veramente non v’era sfarzo nella famosa schiera.

      Giovanissimi sì, ma il moschetto lo maneggiavano da veterani, e siccome tali armi eran pure armi regie, di cui accennammo più sopra, i crik dei colpi falliti eran numerosi e la speranza della vittoria riposava sull’innestata baionetta.

      Tra i numerosi giovani studenti v’eran pure imberbi, bellissimi di volto e della persona, ma nessuno certamente pareggiava la squisita bellezza dei nostri due dell’avanguardia. Il loro volto, come abbiam detto, di colore diverso, colpiva lo sguardo colla nobile beltà della robusta Cinzia, indomabile cacciatrice. I contorni dei loro fianchi però accusavano, più d’alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del sesso gentile.

      E veramente mentre, in un momento di sosta sotto una delle banchine descritte nel capitolo anteriore, io contemplava quella bellissima e valorosissima copia davanti a me – P… diretto a Nullo diceva: «È inutile! queste ragazze non vogliono stare indietro».

      Io informato sino a quel momento che una sola del sesso gentile11 faceva parte della spedizione, venni così a sapere esser esse di più.

      Nel turbinìo dell’assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature. – E per un momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della bellezza, mi sembrò d’esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e le dee presiedevano agli eventi delle battaglie.

      Le due eroine, giacchè le conosciamo donne, avevano perduto nella mischia i loro fez (bonetti) e turbanti; dimodochè una capigliatura d’oro ed una d’ebano avean per un momento svolazzato sull’altipiano del Pianto del Romani. – Esse indispettite d’essere state svelate, misero le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico. – Le due coraggiose sarebbero forse giunte a Calatafimi la stessa sera, se P… e Nullo, l’eroe della Polonia – ferito in un piede, correndo sopra il sano solo – non le avessero fatte tornare indietro.

      La sera di quel glorioso giorno, io stanco, mi riposavo nella vallata che divide Calatafimi dal Pianto dei Romani; quando P… presentossi a me con quelle due belle figure che tanto m’avean colpito nella giornata.

      «Lina, mia sorella, mi disse, viene colla sua compagna Marzia, a chiedervi perdono, d’aver trasgredito l’ordine di non potersi imbarcare donne nella spedizione».

      «Lina è dunque figlia delle belle valli lombarde», io risposi: non potendo decidermi ad un rimprovero, ed un poco sorpreso da tale visita; poi alquanto rinfrancato: «quando per una trasgressione si acquistano tali valorose come sono vostra sorella e la compagna, io, che non sono un modello d’ordine, posso bene accomodarmivi».

      Un momento di silenzio seguì l’interessante colloquio, e vedendomi fiso al volto di Marzia, P… riprese: «Marzia è Romana, e non possiamo dirvi altro di essa, poichè ella stessa non ci ha fatto sapere di più». E senza aspettare la mia risposta, P… continuò: «Non vogliamo tediarvi, poichè dovete essere stanco».

      «Lina vuol presentarvi un mantello incerato, tolto ad un ufficiale nemico, e che vi servirà, sprovvisto come siete, per coprirvi dalla rugiada», e senza darmi tempo di ringraziare, i tre si dileguarono nelle tenebre.

      Io m’addormentai, sognando di battaglie, di dee, di genii, d’Italia intiera risorta, e la sveglia, con cui il mio tromba avea petrificato il nemico nel giorno antecedente, mi destò colla piacevole notizia: che il nemico avea abbandonata Calatafimi.

      E fu veramente grata tale notizia, poichè tenendo il nemico Calatafimi, noi avremmo dovuto ben sudare per impossessarci di quella formidabile posizione.

      CAPITOLO VIII

      DA CALATAFIMI A RENNE

      La vittoria

      È sul brando del forte.

(Autore conosciuto).

      La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del 1860.

      Era un vero bisogno d’iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi. Esso demoralizzò gli avversari che colla loro fervida immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille, e sulla impenetrabilità della loro pelle a qualunque proietto, e rinfrancò i prodi Siciliani che, per esser pochi, erano stati scossi dagl’immensi presidii di soldati, e di mezzi accumulati dai Borbonici nell’isola.

      Palermo, Melazzo, il Volturno, videro molto più feriti e cadaveri. – Vi furono certamente delle pugne più lunghe ed accanite. – Per me però il combattimento decisivo fu Calatafimi. – Dopo il Pianto dei Romani, i nostri sapevano che doveano vincere; e quando s’inizia una pugna con quel prestigio, si vince!

      Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana, nullostante tanta disparità di mezzi e di numero, sono una sventura per l’Italia, non tanto per le perdite nostre d’uomini e di mezzi, quanto per la boria dei nostri nemici che certamente non valgono più degli Italiani; e che dovendo combatterci, verranno a noi come su preda facile, su gente che si spinge avanti coi calci dei fucili.

      E non dubito: gli oppressori nostri s’inganneranno, ove la gente italica sia guidata da un uomo ben convinto che bisogna vincere.

      Le battaglie suaccennate di Novara, Custoza, Lissa, non furono disputate. – In tutte, le nostre forze pugnarono parzialmente, e la maggior parte rimase inoperosa, e ad altro non servì che ad accrescere la confusione della ritirata.

      Io ho conosciuto in America un valorosissimo generale che dopo d’aver iniziato brillantemente una battaglia, a qualunque rovescio parziale comandava la ritirata, e ne conseguiva certo che, ritirandosi di giorno davanti a un nemico impegnato, la ritirata si cambiava in sconfitta.

      Ridotto oggi a consigliare i giovani che guidavo una volta, io non cesserò di ammonirli sulla necessità di costanza, sia nel durare alle fatiche e disagi, nelle guerre che pur troppo dovranno ancor fare; sia nelle giornate di pugna grandi o piccole.

      A Melazzo i Mille furono perdenti fin verso sera, avendo cominciato il combattimento all’alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro del


<p>10</p>

Merita d’essere ricordata la gloriosa morte dello Schiaffino e l’orribile ferita che ebbe Elia nella battaglia di Calatafimi. Ecco come l’Elia stesso la racconta in una lettera al Dott. Riboli. «Io non era aggregato a compagnia nè a battaglione. Fra Menotti Garibaldi, Schiaffino e me, si era stabilito un patto di non accettare pel momento alcun servizio, ma tutti e tre rimanere al fianco del Generale. Allorchè i Cacciatori napoletani, che provarono ad assalire i nostri, si dovettero ritirare inseguiti dai Carabinieri genovesi, Menotti, Schiaffino colla bandiera, ed io ci slanciammo dietro ai fuggenti, ma tanta fu la nostra foga entusiastica, che arrivati su l’erta posizione nemica, ci accorgemmo d’esser soli, ed era naturale che dovessimo pagare il fio della nostra arditezza. Diffatti il bravo Schiaffino cadeva trafitto da numerosi colpi, e lo stesso sarebbe avvenuto a Menotti che, nel raccogliere la bandiera, fu ferito in una mano, se io abbracciatolo, non mi fossi lasciato cadere con lui da un rialzo, che formava una specie di trincera. Quivi rimasti un poco a prender fiato, io nel volgermi per rispondere al capitano Frescianti che mi chiedeva cartucce, vidi che il generale Garibaldi, distante un buon tratto dalla colonna garibaldina, s’avanzava solo a piedi contro l’inimico. Immediatamente mi slanciai verso di lui, e raggiuntolo, mi sovviene avergli indirizzato queste parole: Generale, perchè esporvi così? Una palla che vi colga siam perduti noi e con noi l’Italia nostra. Egli rispose col grido di avanti e roteando la sua spada ad incoraggiamento, invitava all’assalto le nostre colonne. Io avea appena pronunciate le suddette parole, che, volta la faccia al nemico, vidi che un cacciatore napoletano, avanzatosi verso di noi, spianava la sua carabina alla direzione del Generale. Ebbi appena tempo di fare un passo avanti, e un colpo terribile mi colse alla bocca, e mi stramazzò a terra col ventre in alto. Pareva che soffocassi, e nel mentre cercava di rivolgermi, il generale Garibaldi s’inchinò verso di me e mi indirizzò queste parole: Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore. E stese la mano per istringere la mia». E difatti il bravo Elia non morì; rimase colà finchè la battaglia fu vinta dai garibaldini; poi, dopo mille stenti, fu portato a Vita col volto sì fattamente sformato, che il suo amico Dott. Ripari non lo conobbe; quivi gli fu estratta la palla, poscia fu curato a Palermo nella residenza del Generale, divenuto dittatore, indi, quando questi entrò nelle Calabrie, fu condotto a Bologna, ove guarì sotto la cura del ben noto Prof. Rizzoli.

Nota del Comitato).

<p>11</p>

La signora Crispi.