Talamone, uno dei più bei porti della costa Tirrena, è situato tra il monte Argentaro e l’isola d’Elba, coronato di belle colline coperte di macchie, cioè deserte.
E che serve all’Italia d’aver dei bei porti e delle terre ubertose, quando i suoi governi ad altro non pensano che a far dei soldi per pascere le classi privilegiate, ed obbligar colla forza, coll’astuzia e col tradimento alla miseria ed al disonore le classi laboriose?
Talamone, nel tempo della visita dei Mille, aveva un povero forte, poveramente armato, comandato da un ufficiale e da pochi veterani. I Mille avrebbero trovato cosa facile impadronirsene, anche scalandolo. Ma non sembrò conveniente, perchè si sarebbe fatto del chiasso, e poi non s’era certi di trovare in quel sito quanto abbisognava, mentre nel vicino S. Stefano, ove esisteva altro forte ed un battaglione di bersaglieri, v’erano più probabilità di trovarvi il necessario.
Ostilmente, dunque, no; conveniva adoperare un po’ di tatto, ed all’amichevole. E qui valse un bonetto da generale che per fortuna il Comandante della spedizione aveva aggiunto al suo bagaglio. Quel bonetto da generale, agli occhi dell’ufficiale veterano, ebbe un effetto stupendo, e metamorfosò in un momento il Capo rivoluzionario in Comandante legale. Si ottenne in Talamone quanto vi fu disponibile, ed il generale Türr, inviato a S. Stefano, potè procurarsi il resto del bisognevole.
In quest’ultimo porto si fece anche provvista di carbon fossile5.
Il bonetto generalesco, a cui si dovette in parte la riuscita della nostra impresa, nei porti toscani, non garbò ad uno dei capi del purismo, che si trovava nella spedizione. Egli trovò infranti i principii ed i Mille poco puri – e non mancò di manifestare il suo malcontento ai compagni. – Ma, lo ripeto: I Mille non eran gente da tornare indietro per fare delle dottrine, quando si trattava di menar le mani contro gli oppressori dell’Italia.
E, mortificato l’incorruttibile puro, se ne tornò a casa solo a fare la guerra colla penna.
Da Talamone, comandati dal colonnello Zambianchi, si staccarono una sessantina di giovani per sollevare le popolazioni soggette al papato, e coll’oggetto di distrarre i nemici e cagionare una diversione. Tale spedizione, benchè poco fortunata, non mancò di confondere i governi Italiani sulle reali intenzioni dello sbarco dei Mille6.
«Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni, Leardi e tutti sarebbero stati degni, come sempre, dei loro compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti di Calatafimi e di Palermo».
CAPITOLO IV
DA TALAMONE A MARSALA
Felice te, che il regno ampio di venti
Ippolito a tuoi verd’anni corresti.
Abbiam munizioni, capsule, ed alcuni vecchi cannoni senza fusto. Che monta? li faremo.
E non sono tutte simili le fazioni di popoli contro i tiranni? Ma là v’è la coscienza del diritto e quella risoluzione che agevola le più difficili imprese.
Il Dispotismo ha dei mercenarii disciplinati, è vero, ben nutriti, ed uniformati. Ma guai a voi, padroni, se siete lenti a somministrar grassi stipendi. Essi vi fucileranno colla stessa sanguinaria indifferenza, come fucilano oggi gli sventurati che si lamentano delle vostre depredazioni.
Vogate, nobili piroscafi! Vogate, voi portate tal gente che fa l’orgoglio d’una nazione oppressa, calunniata, ma con una storia, accanto a cui si inchinano le storie dei più grandi popoli della terra.
Questa gioventù brillante è accompagnata dai palpiti e dalle benedizioni delle madri, delle spose, delle amanti, e da quanti cuori generosi sentono la dignità della patria e l’insofferenza di dominio straniero.
L’onde azzurre del Tirreno, increspate dal zeffiro, dondolavano dolcemente i piroscafi, che vogavano a tutta velocità verso il loro destino, e pochi eran gli Argonauti afflitti dal mal di mare. Male che non ben si definisce, poichè fortissime nature vi son soggette, mentre persone gracili non ne risentono i nauseanti effetti.
Come autorità incontestabile si dice: il grandissimo tra gli Ammiragli moderni, Nelson, soffrisse di tale disagio.
Sulla tolda del Piemonte un alterco non sanguinoso certamente, succedea tra il pacato maggiore Bassini ed il focoso tenente Piccinini, il primo di Pavia, e figlio il secondo delle valli Bergamasche, ambi valorosi. E ciò che prova non esser essi affetti dal male di mare, si è che la disputa proveniva dalla distribuzione del rancio.
Era proprio curioso veder l’eccellente Bassini inarcar le ciglia con un’aria d’autorità che gli dava il grado, ma che non sentiva in fondo, essendo di natura amorevole ed affettuoso anche coi minimi suoi subordinati.
Il Piccinini, più nerboruto ed ardente del suo superiore, aveva tutt’altro che intenzione di perdergli il rispetto, ma iniziata la controversia, e credendo aver ragione, ripugnava di cedere in presenza de’ compagni affollati a contemplarli.
Più curioso ancora era osservare quella massa di giovani, fra cui molti studenti e professori, appartenenti a più cospicue famiglie, osservarli, dico, colla loro scodella alla mano, divorando cogli occhi la caldaia, ed aspettando impazienti e silenziosi che finisse la questione tra i due veterani ufficiali. E devo confessare, a scapito della disciplina volontaria, che l’alterco non si disponeva a terminare molto presto, se non succedeva il fatto seguente che vi pose fine.
«Un uomo in mare! un uomo in mare!» si udì dalla prora del Piemonte, e si ripetè in un momento fino alla poppa.
E veramente un corpo umano vedevasi scorrere lungo il fianco sinistro del piroscafo, passar fuori delle ruote e lasciato indietro in un momento. Si fermò la macchina, si sciò7 indietro e cinque dei nostri marini furono in un istante sull’ammainato palischermo di sinistra e salvarono il pericolante compagno.
Quand’io penso a quella classe privilegiata d’uomini di mare, sì svelti, sì coraggiosi che si dondolano graziosamente su d’un pennone nelle tempeste e qualche volta al più alto dell’alberatura, mi torna il prurito dell’antica professione, e ricordo con compiacenza l’ammirazione e l’affetto che in tutta la vita ho nutrito per il buono ed ardito marinaro italiano.
Per la sventurata condizione del suo paese, il marinaro italiano è obbligato di cercare impiego sui legni stranieri d’ogni nazione. Dalla Francia alle Indie voi lo trovate dovunque, e dovunque stimato e portato in palma di mano (come diciamo noi marini), perchè a nessuno la cede in abilità, laboriosità e coraggio.
Il Perù, il Chilì, e tutta la costa americana del Pacifico, è zeppa dei nostri arditi navigatori.
Nel Rio della Plata, dal palischermo che vi sbarca, al piroscafo ed alla palandra che vi conducono nell’interno di quei fiumi immensi, son quasi tutti italiani.
Ed il Governo italiano sa esso di avere il fiore dei nostri marinari sparsi sulla superficie del globo? Dico fiore, poichè sono veramente i migliori, coloro che insofferenti di miserie e di depredazioni si lanciano nelle avventure di vagante vita in lontane contrade.
Il governo sa d’aver molti marinari, e per le sue belle imprese li trova anche eccellenti. Io sono comunque d’avviso, che sebbene non sianvi i migliori marini a bordo dei nostri bastimenti da guerra, la colpa delle nostre sconfitte sarà sempre unicamente per direzione pessima.
O Carambollo! perchè non ti ricorderò ai nostri concittadini! Forse perchè, semplice marinaro? E che importa! tu eri tanto buono, tanto agile, e coraggioso da servir di tipo al vero marinaro italiano.
Carambollo, compagno mio a bordo di una fregata francese destinata a Tunisi nel 1835, aveva fatto parte dei marinai della guardia, nella campagna del 1812 in Russia quando gl’Italiani erano legati al carro del primo Bonaparte. E in tutte le sue parodie il 3º Impero è pervenuto anche oggi ad assoggettare questo infelice nostro popolo!
Non