Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2. Giovanni Boccaccio. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Giovanni Boccaccio
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
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stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago, della sovvenzione deʼ paesani: il quale non è dubbio niuno, che, avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli, mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo, cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in terra lavati i piedi aʼ suoi discepoli, tra lʼaltre cose da lui dette loro in ammaestramento, disse queste parole: – «Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene, percioché io sono». – Direm noi in questo Cristo aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo no, percioché né in questo né in altra cosa peccò giammai colui che era toglitore deʼ peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti ottimamente fece; percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato lʼesempio dellʼumiltá aʼ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le parole seguenti dove dice: – «E se io, il quale voi chiamate Maestro e Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete voi lʼuno allʼaltro lavare i piedi. Io vʼho dato lʼesempio. Come io ho fatto a voi, e cosí similmente fate voi», – ecc. Adunque è talvolta di necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse lʼautore.

      [Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse lʼautore dʼalcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose dette da lui, la qual molto pende dallʼautoritá dʼesso. E perciò qui lʼautore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello stato dellʼanime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia fede, di necessitá confessa qui esser daʼ poeti dichiarato poeta.]

      «Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della seconda principale, nella quale esso dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque poeti ed io, «infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello», cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose, «colá dovʼera». Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano dʼindovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse, poi che lʼautore il volle tacere? «Venimmo a piè dʼun nobile castello», cioè nobilmente edificato, «Sette volte cerchiato dʼalte mura, Difeso intorno», cioè circundato, «dʼun bel fiumicello». «Questo», fiumicello, «passammo come terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello avea, come sette cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate le sette porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun vʼè, né alcunʼerba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere puote intrare.

      «Genti vʼavea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive lʼautor primieramente alcuno deʼ lor costumi e modi, per li quali comprender si puote loro esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina una parte. Dice adunque: «Genti vʼavea», in quel luogo, «con occhi tardi e gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá dellʼanimo, percioché coloro, li quali muovono la luce dellʼocchio soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli cuoprono, dimostrano lʼanimo loro esser pesato neʼ consigli, e non corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá neʼ lor sembianti», in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan rado», percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con voci soavi», percioché il gridare e lʼelevar la voce soperchio si manifesta piú tosto abbondanza di cdldezza di cuore che modestia dʼanimo. «Traemmoci cosí dallʼun deʼ canti», cioè dallʼuna delle parti di quel luogo. E son prese queste parole dellʼautore da Virgilio nel sesto dellʼEneida, ove dice:

      Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:

      et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit

      adversos legere, et venientum discere vultus, ecc.

      «In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»; percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.

      «Colá diritto, sopra ʼl verde smalto», cioè sopra il verde pavimento. Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa, come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura; il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati», da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti, «in me stesso nʼesalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser maggiore.

      [Lez. XIV]

      «Iʼ vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere che lʼautore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. Deʼ quali lʼuno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera molte giornate. Lʼaltro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono lui essere stato il padre dʼElettra, né altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá, ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie, chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole deʼ poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo De fastis cosí:

      Pliades incipiunt humeros relevare paternos:

      quae septem dici, sex tamen esse solent,

      Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:

      nam Steropen Marti concubuisse ferunt,

      Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:

      Maian et Electron Taygetenque lovi:

      septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.

      Poenitet: et facti sola pudore latet.

      Sive quod Electra Troiae spectare ruinas

      non tulit, ante oculos opposuitque manum.

      Secondo gli astrologi, lʼuna di queste sette stelle è nebulosa, e però come lʼaltre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini «virgiliane». Anselmo, in libro De imagine mundi, dice che queste stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla quantitá, percioché «plion» in greco viene a dire «moltitudine» in latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè allʼentrata di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome, furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo. Lʼavere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí sono faticate, avendo patito mancamento