«Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»; la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta compagnia».
Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»; e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire, dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono dʼalberi.
«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati, «Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía». Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon tali, che per gran cose conosciuti fossero.
«Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí», nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel quale eravamo.
– «O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro, commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼEtica dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste lode dallʼautore attribuite gli sono.]
«Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino a qui abbiam veduti, «gli diparte?» – in quanto hanno alcuna luce, dove quegli, che passati sono, non hanno.
«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me: – Lʼonrata», cioè lʼonorata, «nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo. – [Intorno alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda, sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]
«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè da me, «udita», cosí fatta: – «Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua», cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita», – quando andò al soccorso dellʼautore, come di sopra è dimostrato.
«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire», come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna: «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser di leggiere animo e di volubile.
«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire: – Mira colui con quella spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava, cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.
«Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle scritture